Appunti di Storia: da Mann a Penciu a Ripley, quando il campionato aprì le porte agli stranieri
Di Elvis Lucchese
Di giocatori stranieri nel campionato italiano ce ne sono sempre stati. Nella Lazio del 1929, al tempo del primo torneo nazionale, figurava il romeno Andrei Bals, studente nella capitale, tre volte nazionale, mentre gli anni Trenta avrebbero visto due fratelli inglesi, Toby e Lawrence Baumann, impegnati l’uno a Roma e l’altro a Milano con l’Amatori. Si è trattato quindi di stranieri di passaggio in Italia per svariati percorsi biografici (ad esempio seminaristi, diplomatici, marinai) e prestati momentaneamente al rugby. E’ a cavallo degli anni Sessanta e Settanta che matura la svolta con l’avvento dei primi giocatori condotti nel Bel Paese con il solo scopo di contribuire alle imprese sportive dei nostri club. Quello che va da Allan Mann e Alex Penciu ad Andy Ripley è un turbillon piuttosto bizzarro di esperimenti esterofili, con il quale la palla ovale provava a seguire la strada aperta dal basket con gli americani.
Contribuirono più fattori
Mentre i britannici vigilavano con rigore sul dilettantismo, sulla scappatella in Italia erano disposti a chiudere un occhio. Lo sviluppo dei trasporti aerei nel frattempo accorciava le distanze, mentre le società italiane grazie agli sponsor di maglia (impensabili altrove) si ritrovavano con un tesoretto da spendere. Non ultimo, l’aria del Sessantotto aveva reso quella generazione più open minded e desiderosa di nuove esperienze.
Allan Mann il primo straniero
Il primo straniero a fornire un apporto importante è nel torneo 1969-70 uno scozzese senza significativo curriculum, Allan Mann, apertura nel Petrarca che conquista il suo primo scudetto (i padovani faranno comunque il bis l’anno seguente con squadra interamente italiana). In quella stessa stagione era giunto alla Tosimobili Rovigo come allenatore-giocatore l’estremo romeno Alex Penciu, transfuga dal regime. Il suo ingaggio mensile è di 200mila lire, 1.800 euro di oggi. Ha già 37 anni ma nelle quattro stagioni italiane lascerà il segno grazie soprattutto alla precisione del piede. Parma invece aveva chiamato nel ‘68 il tecnico gallese David “Dai” Williams, che avrebbe poi voluto dal suo club, il Newport, l’apertura Tony Haines e dal Cross Keys il terza linea John Drinkwater.
Ma a sparigliare le carte nella stagione 1971-72 è il Bologna del presidente Angelo Pederzini. Questi interpreta in modo libero il regolamento che permette di schierare in campo quattro atleti provenienti da federazione straniera ma non pone limiti ai tesseramenti. Pederzini quindi contatta in Galles una decina di giocatori, facendone arrivare tre o quattro ogni domenica dopo che magari avevano giocato al sabato con il Pontypool. Luciano Ravagnani li chiama “i pendolari del rugby”. Visto che David Williams arriva dal Parma e non può essere considerato “proveniente da federazione straniera”, il Bologna arriva a giocare con cinque stranieri più l’argentino Acquaroli. Fra le meteore alcuni sono di livello assoluto come David Cornwall, dagli inconfondibili baffoni, il quale sarà poi nel Brescia dello scudetto, Barry Clegg e Terry Cobner, futuro capitano del Galles e in tour coi Lions (oggi è presidente della WRU).
“La grande invasione richiama interesse. Lo straniero, dopo il basket, fa crescere il rugby. Che male c’è?”, commenta sul Gazzettino Luciano Ravagnani, “la tecnica fa spettacolo, a tutti i livelli. Allora, largo allo straniero, ma allo straniero forte, che insegna, allo straniero «pedagogico», non al mercenario”.
Battuto a Bologna alla terza giornata, anche il Metalcrom Treviso prova lo stesso azzardo. Il presidente Franco Dolce organizza l’arrivo di quattro londinesi per il derby con il Petrarca. Provengono dalla squadra del Guy’s Hospital. Il tecnico Lolo Levorato ne fa giocare da titolari due, Rigg e Traversi, Roystone lo lascia in campo per un tempo mentre scarta Hackney. Treviso non solo perde il derby ma si copre di ridicolo per la scena offerta dagli “ospedalieri” che, spiega Ravagnani, “sfioravano la broccaggine”. Levorato si dimette. «Avevo bisogno di un paio di trascinatori del pacchetto di mischia, ma mi hanno portato non quattro giocatori veri, bensì quattro baccalà», accusa sulla stampa. (Belli i tempi quando la comunicazione era autentica). Intanto a Frascati sbarcano sei sudafricani, fra i quali Raymond Bellingham resterà per sempre. Ed è un sudafricano anche colui al quale il Petrarca affida la regia. Si chiama Nelson Babrow e il contatto è stato creato nell’ambito dell’università grazie al celebre cardiologo Cristiaan Barnard, amico e collega dello springbok Louis padre dell’atleta. Padova vince lo scudetto, Bologna retrocede.
Nella stagione 72-73 tocca alla Roma centrare il colpo più eclatante, tesserando i due nazionali scozzesi Chris Rea e Keith Robertson, mentre a Treviso con più pacatezza si ricorre ad un preparato allenatore-giocatore inglese, Peter Cunnington, destinato anch’egli a scegliere l’Italia quale paese d’adozione. Ormai le frontiere sono spalancate e gli stranieri diventano una componente imprescindibile per puntare a vincere in campionato. E’ nel ’75 che il numero dei tesserabili viene ridotto a due. Tempo per vedere ancora i primi fra i pochi francesi che scavallano le Alpi (Guy Pardies e Paul Galon), un All Black nella neopromossa Casale sul Sile (Ken Carrington), l’approdo a Roma di Dick Greenwood, l’impressionante gallese Clive Burgess a Brescia.
Proprio il club lombardo è protagonista dell’ultima follia esterofila del momento, quando per giocare la partita decisiva per lo scudetto ’76 tessera il popolarissimo numero 8 dell’Inghilterra e dei Barbarians, Andy Ripley. Circolano voci di un gettone faraonico per l’asso di Liverpool. Ma la Sanson Rovigo allenata da Julien Saby vince sul campo della Wuhrer 12-6 e si prende il titolo. “La carta Ripley non è servita a niente”, scrive Luciano Ravagnani nella cronaca del match, “perchè se il rugby contiene una verità è quella dell’umore, della coesione, dell’obiettivo unitario. Una squadra di rugby è una somma di sacrifici”.
Elvis Lucchese, storico dello sport, è autore di “Pionieri. Le origini del rugby in Italia, 1910-1945”, Piazza Editore.