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Parliamo di Ruggero Trevisan, remember? È l'agosto del 2015 e c'è gran fermento in vista di una nuova stagione. A dire il vero il fermento è tutto per gli altri, non per Ruggero. Il quale, dopo quattro stagioni tra Aironi, Zebre e Treviso, ma soprattutto dopo una sfilza impressionante di infortuni tra collo e schiena, decide anzi di lasciare il rugby. Non è tutto, perché di lì a poco arriva l'annuncio che lascia tutti a bocca aperta: «Il mio futuro sarà in seminario». Per diventare missionario e partire dunque per ben altre trasferte.

Il riassunto delle puntate precedenti si ferma qui. Dunque eccoci, ottobre 2018: l'ex estremo Ruggero Trevisan è tornato al rugby per allenare l'Under 18 che il Viadana ha assemblato assieme al Carpi e per guidare, sempre a Carpi, la prima squadra impegnata in C2. Cosa è successo nel frattempo? L'abbiamo chiesto al diretto interessato.

«Devo proprio rispondere? [Sorride]. Ho frequentato per due anni e mezzo il seminario e... diciamo che ho capito una cosa: quella non era esattamente la mia strada. Preferirei non aggiungere altro».

Tranquillo, è un'intervista, mica un terzo grado. Oltre al ruolo di tecnico di cosa si occupa oggi Trevisan?

«Lavoro per la cooperativa Nazareno di Carpi, come educatore. Mi occupo soprattutto del centro diurno, dove assieme ai ragazzi svolgiamo lavori di falegnameria e giardinaggio. Al contempo, il rugby mi mancava troppo e allora ho chiesto informazioni sulle società operanti sul territorio e mi sono proposto. Da marzo è iniziata la mia attività di allenatore».

Non pensi mai a tornare in campo in altra veste?

«Effettivamente giocare mi manca tantissimo. Anche durante gli anni di seminario seguivo il Sei Nazioni e sono sempre rimasto collegato al mondo di prima. Una passione che non si dimentica».

Beh, riprovaci...

«Eh, non sai quanto mi piacerebbe, ma gli infortuni sono stati tosti. Per non parlare dei quattro interventi chirurgici a cui sono stato sottoposto».

Parliamo del futuro, dai.

«Vorrei crescere come educatore. Contemporaneamente mi piacerebbe portare il rugby nelle aziende. Trovo che i principi del nostro sport siano coniugabili con le attività in azienda. E poi chissà... Devo ancora capire tante cose. Sto studiando Scienze Motorie, mi sto formando come tecnico. Un vecchio pallino è quello di aprire un ristorante. Venendo da Caorle, ho sempre pensato a un ristorante sul mare. Vedremo».

Di tutto e di più, insomma. Mille passioni. L'unica vera costante sembra (anzi, è) il rugby. Cosa è cambiato dal 2015 a oggi?

«Anche dai racconti dei miei amici posso dire che c'è stato un netto cambio di mentalità. Oggi si vuole vincere ogni partita e questo ha soppiantato la filosofia del badare a non prenderle, per noi italiani da sempre ostacolo. Oggi l'aspetto mentale è decisivo. Prima ci sentivamo inferiori, ora no».

Effettivamente si sente parlare molto di questo aspetto dalle parti delle franchigie di Pro 14. Ma come si cambia, effettivamente, mentalità?

«Attraverso un percorso, reso possibile soprattutto se puoi lavorare con una rosa consolidata. Ricordo la gestione Franco Smith a Treviso, quello è un esempio. Col tempo si creano automatismi e si può costruire un cammino ambizioso. Non è sufficiente portare i giocatori più forti del mondo in una squadra se non hai un'organizzazione di questo tipo alle spalle».

E la Nazionale intanto?

«Ho visto qualche azzurro davvero molto interessante. Molti hanno giocato o giocano ancora all'estero. I giovani possono fare bene sin dalle franchigie».

Ma...?

«Ma la pecca resta il Top 12, su cui s'investe troppo poco. Il livello si è abbassato molto, rendendo così difficilissimo il salto al Pro 14 e quindi alla Nazionale. Il campionato italiano non rappresenta al momento la preparazione ottimale per l'alto livello».

Cosa vuoi dire a chi si appresta a compiere quel salto nell'alto livello?

«Io sono sempre uscito dal campo contento, perché davo tutto. Credo che l'importante sia essere sempre esigenti con se stessi e con gli altri. Come è importante non accontentarsi mai, voler sempre crescere. E sfidare tutti».

 

Foto Elena Barbini

 

 

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