Intervista a Nick Scott “in Italia si pensa troppo alle strutture, ma il rugby è caos”
Nato nel 1961 a Lincoln, vicino Nottingham, la dove si è scritto della Foresta di Sherwood e della leggenda di Robin Hood. L’inglese Nick Scott ha iniziato a giocare a rugby come mediano di mischia nel Woodwhats, assieme a un certo Brian Moore. Una carriera terminata presto, quando a 28 anni si operò al ginocchio “ho continuato fino a 32 anni ma è stata dura - ammette Nick Scott -. Però posso dire di aver giocato quando la meta valeva 3, 4, e 5 punti” sorride soddisfatto.
Scarpini appesi al chiodo Scott ha iniziato ad allenare a Newark, poi a Leicester lavorando per la Rugby Football Union regionale e in collaborazione con i Tigers. “All’epoca il nostro compito consisteva nel far crescere i giocatori. Dan Cole quando aveva 12 anni giocava numero 8, abbiamo visto in lui qualcosa di diverso e, parlando con i genitori, abbiamo deciso di farlo diventare pilone. Direi che la scelta è stata giusta.”
Dalla Academy del Leicester sono arrivati in nazionale inglese giocatori come Harry Ellis, Louis Deacon e Olly Smith, tutti passati da giovani sotto la guida di Nick Scott.
Nel 2005 Nick Scott diventa Head of coach per la RFU, una sorta di allenatore degli allenatori. Dai suoi uffici a Twickenham sono stati formati migliaia di allenatori in questi anni. Oggi, all’età di 57 anni, Nick Scott cambia pagina iniziando una nuova avventura a Colorno, in Italia, nel ruolo di Direttore Sportivo. “In estate mi hanno proposto questa nuova opportunità, mi hanno parlato bene dell’Italia, qui c’è un grande potenziale.”
Avevi già delle conoscenze nel bel paese?
“Conosco Conor O’Shea e mi piace il suo modo di vedere il rugby. Lo avevo conosciuto a Londra quando era a capo delle accademie inglesi, prima che allenasse gli Harlequins”.
A poche settimane dal tuo arrivo in Italia che impressione ti ha dato il rugby di casa nostra? Cosa deve fare l’Italia per diventare come le grandi del rugby mondiale?
“Dal mio arrivo qui ho visitato cinque club italiani e in ognuno di questi club ho constatato un ottimo ambiente, il senso della famiglia, il senso di appartenenza alla squadra e ottimi valori.”
Nick entra subito nell’aspetto tecnico.
“In Inghilterra sappiamo quando e perché fare le cose, gli stessi giocatori sono in grado di farlo.
Gli allenatori in Italia sono molto preparati tecnicamente, ma la prossima cosa su cui devono lavorare è imparare quando e perché fare una determinata scelta, la chiamiamo decision making, è la capacità di saper prendere decisioni.”
Parlaci della tua visione del rugby.
“Una partita di rugby è caos, il tempo è caos. Una partita di rugby è fatta per il 30% da strutture pre impostate, il restante 70% è gioco senza strutture. In Italia troppi allenatori pensano alla struttura, agli schemi. Si concentrano sulla struttura e non preparano i giocatori per tutto il resto. Le skills, cosa fare in una situazione di gioco rotto, come reagire sotto pressione, questi sono aspetti che in Italia si stanno sottovalutando. Vedo troppi giocatori giocare come robot.
Ti cito una frase presa dal libro di Mike Tyson: “ognuno ha un piano... fino a quando non prende un pugno in faccia”.”
In passato l’Italia naturalizzava giocatori argentini e sudafricani per alzare il livello della Nazionale Maggiore. Il reclutamento di giocatori all’estero è una questione che interessa oggi anche l’Inghilterra: vedi Brad Shields, Ben Te’o, Dylan Hartley, Nathan Hughes e Danny Solomona.
“Nel calcio i migliori giocatori non arrivano dalle grandi nazionali. I più talentuosi arrivano da paesi piccoli come Africa e Brasile. E’ la storia che ce lo dice.
Non c’è allenatore che possa insegnare il talento. I più grandi giocatori quando erano bambini giocavano e basta, perché si divertivano, osavano per imparare, per scoprire nuove cose.
La stessa cosa avviene nel rugby. In paesi come Samoa, Fiji e Tonga nascono giocatori che hanno il rugby nel sangue. La giocano con il sorriso perché si divertono.”
Come hanno strutturato i campionati giovanili nelle isole del Pacifico?
“Secondo me loro adottano il sistema di gioco perfetto: dall’Under 16 in giù le squadre giocano senza un vero campionato, si ritrovano e giocano ogni fine settimana con il fine unico di divertirsi. Non hanno una classifica. Dai 18 anni in poi invece il campionato esiste e i giocatori imparano a vincere e a capire come vincere. Solo dopo i 18 anni vincere per loro diventa veramente importante.”
“Nelle Fiji per esempio non c’è una coppa, tutti giocano per divertirsi. Imparano senza la paura di sbagliare, senza la paura che l’allenatore si arrabbi perché hanno perso una partita.”
I risultati dell’Inghilterra ultimamente non sono stati buoni. Cosa pensi delle ultime voci riguardo a un possibile esonero di Eddie Jones prima della Rugby World Cup?
“Quando Eddie Jones ha iniziato ad allenare l’Inghilterra, per i primi due anni, tutti pensavano che avrebbe potuto vincere la Rugby World Cup. Lancaster prima di lui aveva creato un buon ambiente ma gli è mancata l’esperienza sul campo. Con Eddie Jone abbiamo guadagnato in questo senso. Lui ci ha insegnato come vincere, come utilizzare i giocatori nel modo migliore. Ma il mondiale è nel 2019, e il tempo è importante per preparare una squadra potenzialmente pronta a vincere nel 2019.
Penso che se l’Inghilterra vincerà la Pool (il girone con Francia e Argentina è soprannominato Pool of death - girone della morte ndr), se arriverà prima nel girone credo che potrà arrivare in finale della Coppa del Mondo.”
E delle questioni che hanno interessato Danny Cipriani? L’apertura del Gloucester non è stato convocato all’ultimo raduno.
“Eddie Jones ha una visione molto chiara di come vuole la sua squadra. Ha un piano ben specifico per ogni giocatore nei 15 ruoli. Sa come ogni singolo contribuirà a vincere. Ha una visione molto più ampia di quello che molti pensano.
Per lui Cipriani è in graduatoria il mediano di apertura numero 4. Davanti a lui vede Owen Farrell, George Ford e Alex Lozowski. E io penso che il miglior numero 10 di tutto il mondiale sarà Farrell.”
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