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Nel ’76 Julien Saby ha condotto Rovigo alla conquista di un titolo tricolore che mancava da dodici stagioni. Per l’allenatore di Saint-Fons, classe 1902, è il secondo scudetto a distanza di quarant’anni da quello ottenuto alla guida dell’Amatori Milano nel ’36. A Rovigo lascia un segno indelebile, non solo per aver messo a valore l’enorme potenziale umano del territorio: ha formato gli allenatori del club, ha lavorato con gli arbitri della sezione locale, si è persino dedicato a incontri con i tifosi affinchè il pubblico la domenica sappia meglio comprendere e apprezzare la partita. E’ durante il periodo italiano che Saby dà forma definitiva alla concezione tecnica che si riferisce alla “scuola di Grenoble”, tanto che la prima edizione di Les fondamentaux du rugby, firmato da Pierre Conquet e Jean Devaluez, viene stampata nel ‘77 dalla tipografia Editoriale Veneta di Vo’ Euganeo, a quaranta chilometri da Rovigo. Più di ottocento pagine di filosofia, teoria e prassi che avrebbero influenzato molti allenatori nel mondo.

Pierre Villepreux viene messo sotto contratto dalla Federazione Italiana Rugby nell’estate del ’78 ed è a Rovigo il 24 ottobre che la Nazionale azzurra è chiamata alla prima uscita sotto la conduzione dell’allenatore di Arnac-Pompadour, classe 1943. Avversario la forte Argentina di Hugo Porta. Quella che accoglie Villepreux è un’Italia rugbisticamente provinciale, con un campionato che suscita vere passioni solo nelle roccaforti del nordest e una Nazionale reduce da sconfitte in Marocco, Polonia, Spagna. Sorprendentemente gli azzurri battono i Pumas argentini 19-6 grazie al piede di Loredano Zuin, il quale fa meglio di Porta giocando nel cortile di casa: Zuin è il figlio del custode dell’impianto “Mario Battaglini” di Rovigo, ci abita con papà Beppe e mamma Bruna e sul prato dello stadio ha sgambettato fin da bambino. Poco più di un anno dopo, ancora al “Battaglini” gli azzurri affronteranno gli All Blacks in una storica prima volta. I neozelandesi vincono 18-12 ma l’azione della meta italiana ha già il marchio di Villepreux, con un pallone tenuto vivo da nove tocchi di otto giocatori (Mariani l’ha passato due volte) prima di venire schiacciato oltre la linea da Nello Francescato.

Allenamento con una macchina della mischia anni '30

Julien Saby e i pionieri

Sono i francesi ad accompagnare il rugby italiano nei suoi primissimi incerti passi, fra le due guerre. E sulla scorta di vicinanza geografica e affinità linguistiche e culturali sarà sempre il rugby francese a rappresentare, agli occhi degli italiani, la misura dei propri progressi, almeno fino al 1997 quando gli azzurri coroneranno un’infinita rincorsa dopo una cinquantina di confronti nei quali ai Coqs era bastato schierare le rappresentative A1, B o Espoirs.

Il primo promotore della disciplina, Pietro Mariani, ha conosciuto la palla ovale durante una trasferta lavorativa oltralpe. Ingegnere, ama ricordare la sua appartenenza al “Cercle des Sports Stade Lorrain”. Mariani recluta soprattutto degli expat francesi di stanza a Milano. Henry Davin è il primo allenatore della squadra milanese, accolta nell’alveo del prestigioso Sport Club Italia. Gustave Laporte, dirigente della Camera di Commercio Franco-Italiana, è un fervido sportman: partecipa ai campionati nazionali di pugilato ed è un buon giocatore di pallacanestro, figurando nel quintetto dell’Internazionale che si aggiudica lo scudetto del 1923. Offre i suoi servigi al rugby fin dagli esperimenti del 1910.

Gli eventi inaugurali hanno il supporto del quotidiano “L’Auto” e l’attenzione in particolare di Gaston Bénac, dirigente Ffr oltre che giornalista, in Italia nell’autunno 1927 per raccontare le sfide che segnano il battesimo del rugby italiano, protagonista una selezione denominata “Équipe du Littoral”. Da allora squadre francesi saranno regolarmente ospiti nella penisola, soprattutto a Milano, Torino e Genova. Fra queste il Grenoble. La squadra dell’Isère sfida a Torino i milanesi dello Sport Club il 15 aprile 1928 e schierato all’ala figura un venticinquenne Julien Saby. Leopold Mailhan, giunto per la prima volta al seguito dell’Equipe du Littoral, dirigerà la prima finale del campionato italiano e sarà a lungo l’arbitro di riferimento per il movimento. Nello stesso 1928 appare la traduzione del manuale di Charles Gondouin per l’editore Sonzogno.

Quando nell’autunno 1934 viene bandito un concorso internazionale per ingaggiare un direttore tecnico federale la scelta ricade su Julien Saby. In seguito saranno comunque ancora francesi - come Jean Brana - gli allenatori alle dipendenze della Fir. Caso a parte la vicenda di Torino, dove il rugby fin dalla sua apparizione risulta legato al locale stabilimento degli pneumatici Michelin, configurandosi anche come attività dopolavoro. La palla ovale all’ombra della Mole si giova della presenza dei molti francesi in città. Michel Boucheron, un dipendente Michelin con esperienze sportive di alto livello al Montferrand, sarà propulsore per un quinquennio dei positivi risultati espressi dai diversi sodalizi torinesi.

L’intervento di Saby, che la Fir mette a disposizione dei sodalizi affiliati, viene richiesto da più parti. I praticanti del nuovo sport sono affamati di nozioni tecniche. Il lionese risponde con una infaticabile dedizione al ruolo. Gira la Penisola in lungo e in largo, da Trieste a Genova, da Milano a Napoli. Produce articoli e materiali didattici, auspicando che si possano creare «le caratteristiche particolari del “Gioco Italiano”». Al primo raduno degli azzurri, appena trentaduenne, spicca fra i suoi giocatori per forma e capacità. Annota un periodico milanese: “Di tutti i presenti sul campo, chi ci ha vivamente impressionato è stato l’allenatore federale Saby; se potessimo disporre di altri tre giocatori pari al francese, la Nazionale con gli avanti che possiede e con Saby I, II e III fra i tre quarti, farebbe tremare qualunque squadra estera”.

Sotto l’aspetto tecnico, grazie a Saby e alle regolari visite di squadre transalpine il neonato rugby italiano riceve un netto imprinting francese. E in virtù delle relazioni intessute giunge anche il momento del confronto fra Nazionali. L’appuntamento è a Roma il 22 aprile 1935, lunedì dell’Angelo. Saby ha a disposizione quanto di meglio offra il movimento, i francesi allestiscono una compagine di seconde scelte che arriva a Roma solo la notte di sabato. Arbitra Mailhan. Allo Stadio del Partito Nazionale Fascista a sostenere gli azzurri - che in realtà vestono la maglia nera con il simbolo littorio - si presentano circa diecimila spettatori, fra i quali Achille Starace e altre personalità di rilievo del regime. L’esito è severissimo: 44-6. Quando due anni dopo è previsto il debutto a Parigi in occasione del “Tournoi de l’Exposition”, c’è attesa per la crescita degli azzurri, anche alla luce di un successo in semifinale contro una Germania ben preparata fisicamente. Al Parco dei Principi l’Italia selezionata da Julien Saby e Luigi Bricchi viene però ancora maltrattata.

Nella penisola Saby si è intanto impegnato con i club. Arriva l’ingaggio della maggiore società italiana, l’Amatori Milano, che nel 1935 per la prima volta si è vista sfilare lo scudetto dalla Roma allenata da un diplomatico sudafricano, Pierre Theron. Fra i bianconeri capitolini si è distinto un avanti di scuola e lingua francese, Ubaldo “Dino” Scardigli, che si è affermato a Toulon. Un paio di azzurri compiranno il percorso inverso: i romani Piero Vinci, che durante un soggiorno di studio gioca nel Grenoble, e Tommaso Altissimi, per due stagioni con i parigini del Red Star Olympique. Con Saby l’Amatori si riprende il titolo nel 1936. L’allenatore lionese è anche consulente a Genova quando la conferenza di Monaco del ’38 porta alla rottura dei rapporti fra Italia e Francia. Saby rimpatria e con lui Brana, Boucheron e gli altri.

Nel dopoguerra qualche giocatore tenta così l’avventura in Francia. Apre la strada Mario “Maci” Battaglini, voluto dall’allenatore Jean Etcheberry al Vienne nel ’47. Con una parentesi a Toulon, Battaglini rimane in Francia per tre stagioni, raggiunto a Vienne nel ’49 anche dal concittadino Vittorio Borsetto e dal romano Sergio Barilari. Per lui si parla anche dell’ipotesi della naturalizzazione, al fine di poterlo schierare con la maglia dei Coqs. Ad  affermersi nello championnat Sergio Lanfranchi e Franco Zani, mentre nel 1959 si vedrà esordire nella Francia un giocatore di origini venete, Aldo Quaglio, presto seguito da Fernand Zago, entrambi (forse non a caso) piloni. Ma l’emigrazione dal nordest italiano all’Occitania porta anche Aldo Gruarin, nativo delle campagne friulane, 26 presenze fra il ’64 e il ‘68 (ruolo? pilone). E regala l’avventura sportiva dei sei figli maschi di Dante Ferruccio Spanghero, mezzadro nel Lauragais, una grande famiglia patriarcale rapidamente assimilata tanto da fornire in Walter il capitano di una Francia da Grand Chelem.

Per lo Stivale è passato un altro teorico del gioco, Robert Poulain, mentre Saby non interrompe mai i rapporti con i “discepoli”. Già nel ’55 Aldo Invernici e Giuseppe Sessa sono invitati all’Institut National du Sport di Joinville per uno stage “Educateurs”, appuntamento che diviene poi regolare per i tecnici italiani.

In Italia Saby rimane sempre il punto di riferimento, di più: viene considerato un santone infallibile, un guru. Quando nel ’74 a Rovigo prende forma un progetto ambizioso, l’uomo del destino viene così individuato nell’ex tecnico di Amatori e azzurri, pure già anziano. Lo scudetto arriva dopo una sola stagione di assestamento. Ha ricordato Jean Devaluez: «Per Julien l’Italia era un sogno, un universo senza confini dove poteva lavorare liberamente, il luogo dove aveva potuto mettere in pratica tutto ciò su cui aveva riflettuto».
 

Pierre Villepreux

Villepreux il rivoluzionario

Quando viene messo sotto contratto dalla Fir, Pierre Villepreux è docente del liceo Jolimont di Tolosa. Ha trentacinque anni e si è ritirato dalla scena internazionale a soli ventinove, nel ’72. I tecnici negli anni precedenti hanno guardato al Galles con il significativo passaggio alla guida degli azzurri di Roy Bish fra il ’75 e il ’77, mentre dal campionato si irradia il carisma di Carwyn James, approdato sulla panchina del Rovigo dopo Saby. Ma il presidente federale Aldo Invernici intende tornare ai francesi, anche a costo di scommettere su un tecnico non ancora affermato.

E in effetti l’ex estremo di Brive e Stade Toulousain sarà un uomo di rottura. Propone modifiche strutturali, allargando la base dei giocatori a disposizione delle Nazionali, inserendo raduni collegiali di un giorno negli intermezzi del campionato, spingendosi a elaborare progetti di rugby educativo e di rugby nelle scuole (come già aveva fatto Saby) per i quali tuttavia l’Italia non è pronta. Ma quella di Villepreux è anzitutto una rivoluzione filosofica, per cui «è necessario partire dal globale per arrivare al particolare». Se i gallesi avevano puntato a strutturare il gioco degli azzurri, Villepreux parla invece di adattamento, di libertà individuale nelle scelte, di “intelligenza di gioco”: «si gioca a rugby, cercando di risolvere ogni problema che deriva dall’opposizione, in maniera spontanea». E una certa attenzione al campo aperto sembra minimizzare la rilevanza della mischia, su cui si era posto l’accento da sempre.

Con scarto evidente, Villepreux poneva l’enfasi - più che all’avanzamento - al movimento, all’evitamento, all’adattamento. Più che di mistica del combattimento parlava del divertimento del giocatore, atleta non più visto come “soldato” obbediente ma investito di    responsabilità nelle scelte in campo. Per Massimo Mascioletti, «con Villepreux era come se si fosse nel pieno vortice di una specie di rivoluzione».

Mentre Villepreux diffonde le proprie idee fra la base, la sua Nazionale raccoglie in tre stagioni risultati alterni. Batte l’Argentina, rimedia una scoppola a Bucarest con la smaliziata Romania (44-0), pareggia con una buona Inghilterra under 23, cade a Mosca, non sfigura con gli All Blacks. Compie il suo primo tour nelle isole del Pacifico del sud, dove perde con le Isole Cook. Cede all’Unione Sovietica (3-4) a Rovigo, dove però raccoglie complimenti di fronte alla Francia A1 selezionata da Aldo Gruarin. Il bilancio finale è di 10 vittorie, 13 sconfitte e un pareggio. Ma il retaggio di Villepreux va al di là dei risultati, secondo il riconoscimento di cronisti e tecnici. Per Luciano Ravagnani «il rugby italiano, non importa con quale etichetta, comincia a vincere ”qualcosa” in giro per il mondo del rugby (nel mondo che conta). È rimasto lo “stile Villepreux”, il richiamo alla responsabilità, un rugby più personale».

Molto Villepreux ha lavorato con le selezioni giovanili, per formare i formatori, per allenare gli allenatori. E due anni dopo l’addio per la prima volta l’Italia non perderà contro “una” Francia, strappando un 6-6 alla A1 a Rovigo, su un campo innevato. Un risultato che passa inosservato al di là delle Alpi ma che per il movimento azzurro rappresenta una pietra angolare. Il più importante cronista del rugby italiano, Luciano Ravagnani, commenta in quei giorni: «I francesi non potranno mai capire il significato del 6-6 di Rovigo. (…) Mezzo secolo di sconfitte umilianti, pomeriggi di giorni di festa spesso trasformati in piccoli e grossi drammi sportivi, illusioni frantumate, speranze soffocate. Cinquant’anni di sconfitte sono qualcosa che rode dentro, sul piano psicologico. C’era da superare anche una mentalità perdente, una capacità di espressione sempre repressa, quella “cosa” che ho chiamato “sindrome francese” proprio perchè tutte quelle sconfitte si erano trasformate in altrettanti sintomi di una vera e propria malattia».