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La stagione 1990-91 rappresenta un punto di svolta per il rugby italiano. E' la stagione, infatti, in cui si regolarizza in qualche modo il tema degli oriundi in campionato: non se ne ha ancora consapevolezza, ma l'arrivo dei Dominguez, dei Gardner e degli altri “italiani di ritorno” avrebbe cambiato il corso della storia per la Nazionale azzurra e l'intero movimento.

Mentre il rugby mondiale attraversava con difficoltà il guado fra etica amatoriale e dimensione open, forte degli sponsor la nostra serie A era diventata il torneo delle stelle dell'emisfero sud. Per una interpretazione del dilettantismo così disinvolta erano arrivate anche le critiche - per la verità mai troppo severe - dell'International Board. Come gli americani nel basket, fin dagli anni Settanta gli stranieri avevano elevato la qualità del gioco e aggiunto appeal al campionato, al quale ulteriore interesse era stato aggiunto dalla formula dei playoff inaugurata nel 1988. Scarse però le ricadute sulla Nazionale, che alternava qualche slancio in avanti (lo storico 6-6 con la Francia a Rovigo nell’81) ad un cronico stallo testimoniato dalla serie di figuracce contro Romania e Unione Sovietica. La Fir decideva dal 1990 di passare dalla coppia ad un solo straniero per favorire l’impiego dei giocatori italiani, ma al contempo apriva le porte agli oriundi autorizzandone due. Non era sfuggita l’utilità alle sorti della Nazionale dei cosiddetti “naturalizzati”, fra i quali gli apripista erano stati Tito Lupini e Rodolfo Ambrosio, di scuola rispettivamente sudafricana e argentina, esordienti in azzurro nell’87 all’altezza della prima Coppa del Mondo.

Rodolfo Ambrosio e Gustavo Milano

Fermo restando che in campionato si esibivano già diversi gauchos come Sergio Cerioni e i fratelli Norberto e Horacio Mastrocola, è nel 1990 che si apre la caccia ai giocatori con un possibile passaporto italiano “jure sanguinis”, grazie cioè ad un discendente fino alla seconda generazione. Si schiudeva un mercato potenzialmente infinito, vista la portata dell’emigrazione italiana nel mondo. Gli oriundi tesserati in serie A sono in quella stagione 18, fra i quali 15 argentini. E molti lasceranno il segno. Il Rovigo ha pescato un pilone di altissimo calibro in Serafin Dengra, San Donà arriverà ad un passo dalla finale grazie a Gustavo “Tati” Milano e Fabian Turnes, ma gli oriundi si noteranno anche fra le outsider, come nel caso di Diego Scaglia per la Tarvisium e di Juan Cosa per Catania. Ciò che davvero influirà nel futuro della Nazionale è l’operazione che ha portato al Mediolanum il 24enne Diego Dominguez di Cordoba, origini marchigiane per ramo materno. Nonno Raffaele lo voleva calciatore e DD calciatore straordinario lo è diventato, ma di un pallone ovale. E con la maglia dell’Italia. L’intuito di Lino Maffi conduce Dominguez a Milano assieme ad un superbo mediano di mischia come Fabio Gomez, altri gioielli nella corazzata di Mark Ella e di David Campese (virtualmente anch’egli un oriundo per i nonni della pedemontana veneta).

All’orizzonte c’è la seconda Coppa del Mondo, in programma in Inghilterra nell’autunno del ’91. La Fir ha così sentito il bisogno di fissare per i nuovi possibili azzurri una regola stringente, seppur ambigua nella forma. “Per i giocatori in possesso di cittadinanza e passaporto italiani la partecipazione al campionato è subordinata al rilascio di una dichiarazione di disponibilità incondizionata a giocare con rappresentative nazionali. Il cittadino italiano proveniente da federazione straniera che non rilascia la dichiarazione viene considerato straniero a tutti gli effetti”. Alla fine Bertrand Fourcade selezionerà un solo giocatore di scuola non italiana (Dominguez) fra i ventisei azzurri per i Mondiali, senza dimenticare che Marcello e Massimo Cuttitta si sono formati rugbisticamente a Durban. Pesa ancora la resistenza agli oriundi, in nome del tricolore, di una parte del mondo del rugby italiano. “A tutti questi giovanotti che all’improvviso sono stati morsi dall’amor di patria una trisavola che sia stata in convento con la monaca di Monza si può trovare”, scrive Beppe Tognetti, firma autorevole, giocatore negli anni Trenta e quindi arbitro e dirigente. “Non mi sta bene l’oriundo. Ho avuto l’impressione che la nostra Nazionale sia stata violentata, senza passione, dal ragazzo di passaggio. Sarà presto inquinato ciò che di bello, seducente, emblematico la squadra azzurra si portava dietro. Fra qualche anno possiamo arrivare a mettere in campo una Nazionale composta tutta di oriundi regolarmente passaportati, con nomi stranieri, che vadano in campo a contrabbandare per nostro quello che invece nostro non è”.

Il resto della storia è noto agli appassionati. La definizione di oriundo non ha oggi più nessun significato in ambito sportivo. Il rugby si è globalizzato di pari passo al pianeta e la spinta alla commercializzazione ha condotto il gioco proprio nella direzione che appariva “paradossale”, se non riprovevole, alla generazione di Tognetti. Quanto all’Italia, negli anni Novanta ha raccolto i frutti dell’emigrazione al contrario, non solo dall’Argentina. Diedero un contributo all’Italia che conquistò l’ammissione al Sei Nazioni, infatti, anche giocatori di scuola australiana come Mark Giacheri, Julian Gardner e Matthew Pini, questi ultimi due ex Wallabies, fino ad arrivare più tardi a sudafricani come Roland De Marigny e Carlo Del Fava, canadesi come Bob Barbieri, perfino all’inglese Warren Spragg (nonna di Udine), e via dicendo.

Un po’ fecero attente strategie di reclutamento, un po’ il caso. Lo stesso Lino Maffi individuò in un ventenne della remota Paranà i crismi del grande giocatore, e se lo portò a Calvisano. Si chiamava Martin Castrogiovanni. Franco Tonni scovò a Wellington un ragazzo che faceva il muratore, Aaron Persico, e lo ingaggiò a Viadana. Javier Pertile invece arrivò in Italia nel pieno del crac economico argentino. Faceva l’imbianchino. Si presentò al Benetton che non lo prese in considerazione, mentre a Casale sul Sile lo tesserarono dopo il primo allenamento. Passando per Roma avrebbe collezionato 17 caps azzurri. Anche Sergio Parisse (come più tardi Ange Capuozzo) si offrì personalmente alla Nazionale giovanile, impegnata a giocare i Mondiali under 20 in Cile, e non fu affatto difficile convincere l’allenatore Andrea Cavinato.

Il paese rugbistico meno sfruttato, dove certo i discendenti di italiani non mancano, rimane la Francia. Nel fatidico 1990-91 il Benetton aveva scommesso su Thierry Maset, il devastante terza linea erede a Tolosa di Jean-Pierre Rives, la cui famiglia proveniva da Conegliano. Inspiegabilmente Maset era stato ignorato dalla Nazionale francese e sognava una rivincita personale con la maglia azzurra, magari al Mondiale. Disputa a novembre una partita senza cap contro gli Emerging Wallabies di Jason Little e Willie Ofengahue, dopo la quale ha tuttavia la franchezza di dichiarare alla stampa: “Ho giocato con molta nostalgia perchè nonostante la doppia nazionalità il mio paese rimane la Francia. Sono stato contento di trovarmi fra i migliori giocatori italiani ma il mio cuore, almeno per il momento, non c’è proprio”. Negli stessi mesi Guy Pardies contatta un suo ex compagno di Agen di origine italiana, fermo per un infortunio e momentaneamente accantonato dai “galletti”, prospettandogli la possibilità di una maglia azzurra. Philippe Sella, nonni vicentini, confessa di averci fatto un pensiero.

Si arriverà a David Bortolussi voluto da Pierre Berbizier in vista del Mondiale 2007 quando alla Nazionale del dopo-Dominguez mancava un efficiente calciatore. Curiosi sul reale valore dell’estremo di Auch, un giorno i giornalisti insistettero con l’allenatore azzurro per una valutazione. E Berbizier infine chiuse così, nel suo pastiche italofrancese: “Beh, si era bono, giougava co Franza”.


Elvis Lucchese, storico dello sport, è autore di “Pionieri. Le origini del rugby in Italia, 1910-1945”, Piazza Editore.