Rugby: grandi allenatori e grandi squadre nazionali
Eddie Jones non è e non è mai stato quel che si dice “un amico di tutti”. Almeno nel senso che comunemente si assegna a una tale locuzione. Questione di chimica, probabilmente, o del fatto che Mr Jones è uno che vince parecchio, e che quando fa le cose, riesce (quasi sempre) a farle molto bene. Non si tratta di un marziano, sia chiaro. Né di un essere dotato di capacità non umane. La sua carriera, per quanto luminosissima, qualche inciampo l’ha comunque conosciuto. Famoso quello che gli costò la panchina dei Wallabies al ritorno (era il 2005) da un fallimentare Tour nelle isole britanniche, concluso con la sconfitta (di misura) al Millenium con il Galles. Il fatto che sia considerato e che sia stato premiato come il migliore degli allenatori del pianeta ovale, qualche corrucciata levata di sopracciglio deve comunque averla provocata. Soprattutto nei suoi nuovi colleghi d’Oltremanica che mal sopportano la presenza di uno straniero nella sala dei bottoni dell’Inghilterra ovale. Facile fregiarsi del titolo di miglior coach dell’anno quando alleni squadre come Inghilterra, Irlanda o Nuova Zelanda, hanno detto, o sussurrato, molti di loro. Con ciò riaprendo un antico e mai concluso dibattito sulla rilevanza oggettiva del lavoro del coach sul gruppo di giocatori lui affidato. Provasse il grande E.J. a fare qualche risultato decente avendo per le mani nazionali come quelle che è toccata in sorte al (povero?) Conor O’Shea, pare abbia espressamente dichiarato uno di loro. Con ciò intendendo che il risultati attuali e passati dell’Italia poco dipendono dalla qualità del condottiero di turno ma, molto più semplicemente, da quella dei giocatori a disposizione. Si tratta di argomento antico e, forse, nemmeno troppo interessante. Quando vengo richiesto di un parere sulla questione, di solito me la cavo rispondendo con una domanda. Retorica e paradossale finché si vuole ma non del tutto priva di senso. Eccola: “Prediamo in esame il comportamento della Nuova Zelanda nelle edizioni della World Cup successive a quella inaugurale del 1987 fino al 2011 esclusa. Gli All Blacks, nelle 5 edizioni prese in esame si classificarono: terzi, secondi, quarti, terzi e nel 2007 uscirono ai quarti di finale. Se a guidarli dalla panchina, invece di Alex Wyllie, John Hart, Laurie Mains, John Mitchell e Graham Henry, fosse stato l’autista del pullman o il portiere del residence dove alloggiavano moglie e fidanzate durante i ritiri, il risultato finale sarebbe cambiato di molto?”. Di norma ottengo risposte molto vaghe, troppo evidente essendo la quota di irrealtà contenuta nell’assunto principale. Però mi ostino a credere che una parte di verità ci sia. Arrivo a dire (non c’è controprova, quindi rischiare non costa niente) che Conor O’Shea e il suo attuale staff (Catt, Venter…) alla guida del Sud Africa visto in Europa a novembre, lo avrebbero portato a esprimere un rugby decisamente più efficace e spettacolare. E che se gli stessi avessero per le mani l’Irlanda dei miracoli (in un anno ha abbattuto NZ, SA e Inghilterra) attualmente in circolazione, essa non perderebbe, nel cambio, un’oncia di qualità e di consistenza. L’elenco potrebbe continuare (quasi) all’infinito. Se l’effettivo valore di una squadra è il prodotto fra il valore intrinseco dei giocatori e quello di chi ne ha la responsabilità a bordo campo, è evidente che, più si alza il primo, meno incide sul risultato finale il secondo. Vedasi, tanto per non andare troppo lontano, la parabola di Jaques Brunel, il valore del quale come tecnico, ai tempi della sua panchina azzurra, qualcuno ha pensato bene di omologare a quello dei giocatori a sua disposizione. Concludendo che si trattava di un tecnico di scarsa qualità complessiva. Peccato che, appena tornato in Francia…
Concludendo è mia opinione personale che, più si alza il livello qualitativo dei giocatori che compongono la rosa di una squadra, più tenda a contenersi quello del tecnico che è responsabile della loro conduzione. Il mio modello, in questo senso, è Charles Riley, prof di educazione fisica che ebbe in dono dal cielo e dal destino tale Jessie Owens fra i suoi alunni all’equivalente delle nostre scuole medie. E che, quando lo vide correre per la prima volta, narra la leggenda che, alzati gli occhi al cielo abbia implorato: “Signore, fa che su questo ragazzo io sia in grado di fare meno danni possibile”. Per la cronaca, una delle tante medaglie appuntate sul petto di Eddie Jones si chiama George Smith. Jones è famoso per averlo notato (e poi convinto a passare al XV), mentre disputava una partita di XIII. Operazione davvero tanto complessa di cui solo un super coach poteva essere capace?