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Con un po’ più di capelli Sergio Parisse potrebbe essere un Alain Delon giovane, oppure Philippe Leroy, comunque un francese, perché lui, nato in Argentina, da genitori italiani, del parigino ha ormai i connotati dipinti nel volto. Mettetegli una sigaretta all’angolo della bocca, magari quando la partita è andata così così e le labbra gli si piegano in una specie di broncio, e potrebbe stare in una galleria con Jean Paul  Belmondo, con Lino Ventura, con Jean Reno, le facce più tipiche del cinema francese di una volta.

Sergio lo scorso settembre ha compiuto trent’anni e contro le Fiji ha collezionato il centesimo cap, il 2013 lo archivierà anche come l’anno della separazione dalla moglie Alexandra e del cartellino rosso contro il Bordeaux, il primo e unico della sua carriera.

Un anno di svolte. Cominciamo dall’età: “Trent’anni nel rugby sono un traguardo importante. Non sei un più un ragazzo, non lo ero neanche a ventotto o ventinove, in realtà, però trenta rappresentano l’ingresso nella maturità, vuol dire che mi restano ancora tre o quattro anni buoni, non di più. Non credo che giocherò fino a quarant’anni…, il corpo si lamenta già adesso, figuriamoci tra un po’. A vent’anni, il lunedì mattina avevo già smaltito la partita, adesso ci vuole un’altra giornata, a volte due. Quanto ai cento cap è un bel traguardo, certo, bellissimo. Ma io non sono il tipo che sta lì a vantarsi,  a celebrare le conquiste. Sono abbastanza schivo, magari un po’ timido, capisco che per qualcuno questo possa rasentare l’antipatia. Ma non sono “Castro” che oltre a essere un amico è un grandissimo giocatore e lo vedi dall’impatto fisico che è un personaggio: la barba,  i capelli lunghi, lui per carattere è nato per la pubblicità, è una figura che colpisce la fantasia, io molto meno”.

Trent’anni: cosa vede Parisse davanti a sé, quali traguardi gli restano da conquistare?

“Arrivare ai play off nel Top14, giocare ad alto livello con la Nazionale fino alla Coppa del Mondo del 2015 che, presumibilmente,  per me sarà l’ultima, visto che non posso pianificare di disputarne un'altra, nel 2019 avrò 36 anni. Non metto limite alla provvidenza, ma a un certa età,  per durare ci vuole molta fortuna, devi stare bene, non avere incidenti. Preferisco guardare più vicino”.

Resterai a Parigi?

“Lo Stade Francais è una delle due squadre della mia vita, l’altra è stata il Treviso. Ho un contratto fino a dopo la Coppa del Mondo, spero e mi auguro di poter finire lì  mia carriera. Cosa farò dopo non lo so. Quando ero in Argentina, mai pensavo che sarei diventato un giocatore di rugby in Italia e ancor meno che avrei vissuto e giocato otto anni a Parigi. Non ho mai fatto grandi progetti e oggi faccio fatica a immaginare dove sarò una volta smesso di giocare”.

Ti vedi allenatore?

“Proprio non lo so. Mi piacerebbe rimanere nell’ambiente, ma è presto dirti con che ruolo”.

Il rugby ti ha fatto ricco?

“No, credo di no. Ricco per me vuol dire togliersi chissà che sfizi, concedersi chissà che comodità. Io sono sempre stato accorto, non ho fatto investimenti di chissà quale valore, nè mi sono preso rischi come fa chi ha un sacco di soldi. Lo Stade Francais mi ha offerto delle buone opportunità, questo sì, ed è per quello che sono potuto rimanere lì per così tante stagioni, ho una casa a Parigi, anzi due, ma non mi sono comprato automobili di lusso, orologi di valore, al massimo mi permetto una vacanza in un bell’albergo. E se devo spendere qualche soldo lo faccio volentieri per la mia famiglia, per aiutare mia sorella che vive in Austria, a Linz,  o per far viaggiare più comodi i miei genitori se devono prendere un aereo per un volo intercontinentale, cose così”.

Che macchina hai?

“Una Lancia Flavia del club, mi ero comprato una BMW Z4, ma adesso non ce l’ho più”.

A Parigi si vive bene?

”Parigi è una grande città, puoi fare quello che vuoi, nessuno ti nota, al massimo, ogni tanto, vedi che qualcuno ti ha riconosciuto, ma tutto avviene in modo molto discreto. Nessuna pressione, nessuna difficoltà”.

Non ti piace la fama?

Sono uno che sta volentieri per conto suo. Quest’estate sono andato in vacanza a Karpathos, un’isoletta del Dodecaneso. Pensavo di non trovare nessuno, di stare tranquillo. Invece, in albergo, erano tutti italiani,  la prima mattina, a colazione, è stata una fila di autografi e fotografie.  Dal giorno dopo ho fatto colazione da un’altra parte”.

Parliamo del tuo gioco. Qualcuno dice che a volte è troppo spettacolare, che corri dei rischi inutili solo per prenderti gli applausi del pubblico. Che una squadra come l’Italia non può permettersi certi “assoli”, magari i Barbarians…noi no.

“Non è così, non ho mai pensato di fare qualcosa per la platea, non mi interessa che mi dicano bravo. Anche perché so che con certe giocate, se vanno male, passi dagli applausi a fare la figura del coglione. Fa parte del rischio ed è il bello del rugby e dello sport in generale. Non a caso il mio modello da ragazzino era Zinzan Brooke, uno che non faceva solo le cose scontate. La mia idea del rugby è semplice: devi fare quello che ti detta l’istinto e che pensi che ti permettano le tue capacità. Lo so che a volte sono stato criticato per aver osato troppo, ma questo è il mio modo per mettere in difficoltà l’avversario, attaccarlo col pallone in mano, creargli dei problemi con una giocata che non si aspetta. Io non vado mai in campo tanto per andarci,   non sono lì per fare numero, ho fiducia nelle mie doti tecniche e so che giocare vuol dire prendere delle decisioni. So anche di avere molti difetti e che posso sbagliare, ma non per questo devo cambiare il mio modo di giocare. Certo, col tempo ho imparato a gestire meglio le situazioni. Maturare vuol dire imparare dai propri errori ”.

Quale fra quelli che hai commesso ti brucia di più?

“Mah, forse l’aver voluto giocare a tutti i costi contro l’Irlanda, nel 2007. La settimana prima avevamo vinto contro il Galles ed ero stato votato “man of the match”. Non stavo bene e la settimana che precedette il match con l’Irlanda non credo di aver fatto un giorno di allenamento. Avrei dovuto dire che non ce la facevo e invece ho voluto giocare ed è stata la mia più brutta partita in Nazionale. Ho sbagliato più del 50% delle decisioni che ho preso. Abbiamo preso 50 punti. Una bella lezione”.

Il cartellino rosso e la squalifica della scorsa stagione come li consideri?

Era un periodo poco gradevole, mi stavo separando da mia moglie e quando c’è una bambina di mezzo non è mai una cosa bella. Non ho insultato l’arbitro, tantomeno in inglese, anche da quell’episodio tuttavia ho imparato qualcosa: se non avessi perso la calma, se fossi stato più freddo non si sarebbero creati nemmeno i presupposti per quello che poi si è rivelato un equivoco. Un altro momento che avrei dovuto gestire meglio”.

Quanto ti pesa la separazione da Alexandra?

“Non parlo volentieri della mia vita privata. Purtroppo sono cose che capitano. Diciamo che è una storia superata”.

Qualcuno pensa che più che il capitano, tu di questa Italia sia il “boss”, l’uomo che ne decide umori e sorti.

“Sono il capitano e per me è un onore, è bellissimo, perché mi piace prendermi delle responsabilità, essere un punto di riferimento per il gruppo, per i compagni. Però di “boss” ce n’è uno solo, l’allenatore. Il mio compito è ascoltare quello che lui ha da dire e trasmettere la sua filosofia alla squadra, fare da tramite. Non c’è nessuna decisione che io abbia mai preso al di sopra  degli altri. Tra l’altro con Jacques c’è un’identità completa di vedute, il suo rugby è il mio”.

Ossia?

Giocare, cercare di porre questioni alla quadra avversaria, osare, provare a imporre  il nostro gioco. Altri allenatori partono da un’idea diversa e pensano che con  la squadra che hai è meglio basarsi sulla difesa, sull’occupazione del campo. E’ un concetto che qualche volta può funzionare, ma in generale penso che sia giusto cercare di giocare e ovviamente di farlo insieme. Perché noi non siamo una squadra con delle individualità, o una potenza, che, da sole, possono mettere in difficoltà gli avversari. Lo possiamo fare solo se giochiamo collettivamente ed è giusto provare a farlo come dice Jacques”.

La tua generazione, ovvero tu, Marco Bortolami, Castro, Gonzalo Canale, Mauro Bergamasco, gli stessi Zanni e Ghiraldini,  ha superato o si avvicina ai trent’anni. Com’è il ricambio alle vostre spalle?

“Penso che le preoccupazioni siano le stesse che i Checchinato, i De Rossi, Stoica avevano quando siamo arrivati noi. Vedo ragazzi che hanno qualità, ma gli va lasciato il tempo di maturare e di mostrare quello che valgono”.

Cento caps, ne ricordi uno in particolare?

“il primo, eravamo in Nuova Zelanda, avevo diciotto anni,  mi dissero che avrei giocato titolare contro gli All Blacks. Svegliai mio padre in piena notte  (tra Argentina e Nuova Zelanda ci sono quindici ore di differenza, ndr). Mi chiese <<ma Kirwan è impazzito?>>”.  JK ci vedeva lungo, altroché. 

 

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Fotografie di Elena Barbini riproduzione riservata

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