Kieran Crowley: la leadership di un uomo tranquillo
Articolo pubblicato su Allrugby di giugno 2019, numero 137
Kieran Crowley è nato 57 anni fa a Kaponga, una cittadina nella parte sud del Taranaki, in Nuova Zelanda. Nella sua carriera è stato All Black (numero 848), campione del mondo (1987 nella prima edizione del Torneo), poi selezionatore della Nazionale neozelandese, allenatore dei Baby Blacks U19 (2006 e 2007), infine, prima di arrivare a Treviso, è stato ct del Canada.
Di seguito la seconda parte dell’intervista di Gianluca Barca pubblicata su Allrugby di giugno 2019, numero 137. (Leggi la prima parte).
Sei stato selezionatore degli All Blacks, cosa guardi per prima cosa quando osservi un giocatore?
“Il suo apporto alla squadra (work rate), poi certo anche le abilità individuali e altri fattori, ma il contributo al collettivo è la prima cosa che mi interessa verificare”.
Cosa deve avere invece un buon allenatore?
“Leadership, capacità di dare direzione, pazienza”.
Hai avuto dei modelli?
“Ho cercato di prendere un po’ da tutti: Brian Lochore era un grande manager, John Hart più ‘bang, bang, bang…’ Io cerco di ispirare tranquillità, se posso lascio le emozioni agli altri”.
Come vedi il rugby italiano?
“Conor O’Shea gli sta dando una direzione, un sistema. Ci sono giovani molto interessanti, anche qui a Treviso: Lamaro, Negri, Ruzza, Riccioni, per fare i primi nomi che mi vengono in mente. Pettinelli è stato sfortunato a non trovare posto nel primo gruppo selezionato per i Mondiali. In due o tre anni sono sicuro che i risultati arriveranno. Ma bisogna lavorare tutti insieme e che i giovani si allenino ad alto livello e giochino il più possibile. È questo il problema più grosso per me qui in Italia. I ragazzi arrivano dall’Accademia con buone qualità, ma non sono preparati per l’alto livello, la differenza di intensità: il tempo di gioco reale cui sono abituati non è sufficiente. Devono stare in un ambiente competitivo al massimo e se il sabato non giocano devono poter scendere di categoria per andare comunque in campo con i loro club. In Nuova Zelanda la piramide funziona così: club, province, franchigie di Super Rugby, Nazionale. Se non giochi a un livello, devi poterlo fare nella categoria inferiore, dove però mi aspetto che un atleta che ha certe ambizioni faccia la differenza, si noti, quando lo mettono in campo. Di Stefano quest’anno da noi ha giocato poco, l’ideale sarebbe stato che quando per il week end non faceva parte dei nostri 23 potesse tornare in un club in Top12. Abbiamo in squadra Ratuva, Ioane, Hayward, Esposito: non è facile trovare spazio in quei ruoli, certe volte sarebbe stato utile far fare una partita o due a Sperandio a Mogliano, piuttosto che mandarlo in tribuna. Certo poi, se vai lì devi dimostrare di essere di un livello superiore, essere uno stimolo per gli altri, non abbassare l’intensità delle tue prestazioni. Ma sono ottimista, avete visto quanto sono cresciuti Lamaro, Ruzza, lo stesso Cannone, Zanon, Riccioni che l’anno scorso per un problema al ginocchio aveva giocato poco. È vero, ci sono ancora buchi in qualche ruolo, ma sono convinto che in poco tempo l’Italia avrà una squadra giovane e molto competitiva”.
Vi sentite spesso con O’Shea?
“Si certo, e periodicamente facciamo anche riunioni con Bradley delle Zebre, per valutare la situazione dei giocatori, condividere i programmi etc”.
Cosa manca ancora per far fare al rugby italiano il salto di qualità?
“Lavorare insieme: Benetton e Zebre dovrebbero avere la loro accademia dove far crescere i giovani che arrivano dai centri di formazione U18. Ragazzi che devono lavorare ad alto livello per capire quali sono le caratteristiche del rugby che li aspetta da adulti”.
Ma non tutti sono pronti per giocare nel PRO14.
“E infatti nel week end devono continuare a giocare nei loro club, come quest’anno è successo con i permit: Lamaro, Cannone, Crosato, Brugnara, De Masi. Quest’anno erano cinque, la prossima stagione saranno di più. Non è ancora un sistema perfetto, ma è semplice e si può fare subito. All’estero magari hanno le seconde squadre, ma con quelle i costi raddoppiano, raddoppiano le partite, le trasferte, qui non si può ancora fare”.
Cosa c’è nella tua vita oltre il rugby?
“In questo momento non resta molto tempo: tante partite, tanti viaggi, tanto lavoro, partite da preparare, avversarie da studiare. Mi piace leggere libri sulla leadership, anche di sport diversi, John Wooden per esempio (famoso allenatore NBA, ndr), seguo il football anche se non tifo per nessuna squadra in particolare. Guardo l’hockey su prato perché lo gioca mia figlia, cerco di capire come viene usato lo spazio, se ci sono idee da copiare. E mi piace conoscere quanto più posso dell’Italia, un paese fantastico: le Cinque Terre, non ne avevo mai sentito parlare, un posto meraviglioso. Sono stato in Sicilia, ma non ancora in Sardegna e in Puglia”.
Vivi una vita serena, o le partite ti danno ansia, preoccupazione?
“La preoccupazione c’è sempre, magari ti svegli la mattina presto, o fatichi a addormentarti, e pensi ‘non dovevo fare quella sostituzione, ho sbagliato formazione…’ Ma c’è solo un modo per avere la coscienza tranquilla: aver fatto tutto e bene quello che potevi. Sapere che non hai lasciato nulla di intentato. Poi la palla rimbalza sempre dove vuole”.
Dove ti vedi in futuro?
“Ho un altro anno di contratto e in questo momento è l’unica cosa che conta. La vita degli allenatori è sempre incerta. La prossima sarà una stagione molto difficile: tutti ormai ci conoscono, non possiamo più nasconderci e a settembre c’è la Coppa del Mondo. Dovremo fare la preparazione senza i nostri internazionali che sono più di venti e mancheranno fino a novembre. C’è la Champions Cup che è un torneo molto, molto impegnativo. Studieremo la situazione, cercheremo di introdurre anche qualche novità, qualche variante nel nostro gioco. Dobbiamo provare a evolverci per forza”.
C’è una cosa che non ti piace dell’Italia?
“Una cosa che non mi piace non c’è. C’è una cosa che non capisco, che per me è incomprensibile, l’assenza dello sport a scuola, dei giochi di squadra. Ecco quello per me è proprio un fatto negativo”.
La prima parte dell’intervista a Kieran Crowley
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