La storia di Siya Kolisi, cresciuto in povertà e diventato capitano del Sudafrica campione del mondo
Articolo pubblicato su Allrugby numero 142
Il rugby, la vita
Non ama i dolci, anche perché a casa (baracca) Kolisi al dessert non ci si arrivava mai durante l’unico pasto quotidiano. Quello del piccolo Siya, ogni sera al tramonto, consisteva in una pappa di miglio e nei resti di pane e biscotti che la nonna raccoglieva durante il giorno da amici e parenti nel ghetto di Swide a Port Elizabeth.
E poi a dormire nel pagliericcio, sul pavimento di terra battuta, perché il futuro capitano del Sudafrica campione del mondo ha incontrato per la prima volta un letto e un materasso a 14 anni, nel convitto della Grey High School che lo aveva accolto grazie a una borsa studio suggerita da Rassie Erasmus, futuro ct di quegli stessi Springboks in trionfo a Yokohama. L’allenatore aveva subito notato, durante un clinic nella baraccopoli, il talento di quel ragazzone imponente, ma assai agile e veloce: “In verità – ricorda Kolisi – credo che mi abbia visto in mezzo a tutti gli altri perché indossavo pantaloncini rosa di acrilico: allora non possedevo indumenti adatti a giocare a rugby, in realtà non possedevo proprio nulla anche per andare a scuola: scarpe, calzettoni, giacca della divisa, nemmeno una parola di inglese e figuriamoci i rand della retta. Quel giorno, a quel primo allenamento, provai tanta vergogna prima di scendere in campo, poi però pensai solo a correre e a fare meta”.
Da bambino povero, cresciuto dalla nonna ricca di amore e null’altro, mamma lontana, papà sparito inseguendo lattine di birra, strade di fango con rapine e stupri a ogni angolo, Siya è assurto a simbolo dell’intera nazione, interlocutore diretto del presidente Cyril Ramaphosa, il delfino di Mandela, così come lo era stato Pienaar con lo stesso Madiba, etnia Xhosa come Kolisi.
Dopo il successo in Giappone ha detto: «Avere il sostegno di tutti i 57 milioni di sudafricani di ogni razza e di ogni etnia è stato determinante: questa squadra è così, multirazziale, è la nostra forza. Avevo solo 4 anni quando Madiba diede la Coppa al capitano Pienaar e la finale del 2007 la vidi in una baracca-bar per- ché mia nonna non aveva la televisione, ma poi con i compagni di nazionale ci siamo impegnati per ripe- tere quei giorni, per dimostrare che se si lavora tutti insieme si può raggiungere ogni meta e che ognuno, anche se parte dalla parte più povera della società, può arrivare in alto se gli viene concessa un’opportu- nità come quella che con il rugby ho avuto io”.
Dal 2011, data del suo debutto nel Super Rugby, Siya non ha che due obbiettivi intrecciati: giocare sempre meglio per gli Stormers e per il Sudafrica e aiutare i ragazzini poveri a trovare quell’opportunità che la vita gli ha concesso. E ci ha messo alcuni anni, ma infine ha ritrovato e rimesso in carreggiata anche i due fratellastri persi di vista negli anni senza pane del ghetto.
“Di Siya in campo conoscete la grinta, ma in casa è capace di dolcezze commoventi con i nostri figli, a me tocca fare la parte di quella severa”, racconta la bella e bionda moglie Rachel, esperta di marketing e pure battagliera sui social quando stelle e stelline del Sudafrica cercano di entrare nella scia del campione. Nella baraccopoli di Swide hanno già dipinto un primo murale di Kolisi campione del mondo: lì davanti centinaia di ragazzini giocano a rugby o a calcio con le scarpe che il campione ha regalato alla township della sua infanzia.
Donazioni che avvengono in maniera discreta, nessuna ostentazione, semmai la dichiarata volontà di coinvolgere sempre più “persone che sono riuscite nella vita” a impegnarsi per sollevare le sorti difficili, spesso ancora drammatiche del Sudafrica. Fra i suoi più grandi alleati in queste campagne lo stesso ct Erasmus, un altro illuminato del gruppo al vertice del rugby mondiale.
“Sopravvivere lì, in quelle condizioni – ricorda ancora Kolisi, pure appassionato tifoso del Liverpool, il sogno di riserva di diventare medico se non avesse trovato posto nel rugby – è stato assai duro, ma al tem- po stesso ha rafforzato in me, giorno dopo giorno, il senso del gruppo, della comunità, dell’aiuto reciproco esattamente come deve accadere in una squadra di rugby, esattamente come dovrebbe accadere in un paese meraviglioso come il Sudafrica. Prima della finale il presidente Ramaphosa mi ha telefonato: “Siya, non avete bisogno del mio aiuto per vincere, avete quello di 57 milioni di sudafricani”. E a tutta la squadra è piaciuto che abbia voluto viaggiare fino in Giappone anche se tutti ci consideravano sfavoriti rispetto all’Inghilterra. Partire da condizioni di sfavo- re non ti deve condannare: nel rugby e nella vita”.
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