Diego Dominguez su rugby italiano, Pro12 e sul figlio Piero
Napoli, un'hotel del centro e un’oretta libera dall’attività dell’annuale Camp che porta il suo nome. Gli anni passano ma pochi dimenticano Diego Dominguez. Il suo talento, la sua determinazione e, soprattutto, la sua squisita cortesia e disponibilità. “Parliamo di rugby” propone. “Sono qui per questo”.
- Cominciamo dal Camp napoletano. Come procede?
- Molto bene. Lavoriamo con 40 ragazzi campani che sono espressione di una base regionale che sto cominciando a conoscere e ad apprezzare. Il potenziale c’è ed è molto elevato. Sto girando fra i vari club, dove oltre a una calorosa accoglienza sto trovando strutture di qualità e tanta progettualità. La Campania ovale è una regione in crescita.
- Capace di rinverdire i fasti della gloriosa Partenope?
- Perché no? Qui si sono vinti scudetti e si sono formati giocatori eccellenti. Vedo tanta voglia di lavorare, buon segno. La visita che ho fatto a Scampia mi ha anche confermato che l’inclusione sociale attraverso lo sport, da queste parti, è molto più di uno slogan o di una parola d’ordine. Qui, dove nessuno regala niente, parlano i fatti!
- A proposito di giovani e di sport. Piero Dominguez debutterà in Top 14…
- Il Top 14 è un campionato molto impegnativo, lui lo affronterà deciso a dare il massimo ma senza nascondersi le insidie di una prova a tutti gli effetti complessa e dura. Ha 21 anni, e alle spalle 4 anni di formazione in Inghilterra e in Nuova Zelanda. Se ne avrà le capacità…Ha scelto di iniziare accettando una sfida che gli presenterà ben presto il conto.
- Vestirà la maglia del Lione, giocherà nel ruolo del padre. In cosa gli assomiglia, in cosa gli è differente?
- Rispetto al padre è di sicuro più disciplinato e ha un carattere molto forte anche fuori dal campo che lo aiuta a essere costante.
- È nato a Milano e la nonna è italiana...
- In Top 14 giocherà come francese, dal momento che ha trascorso più di sei anni in Francia. Dove però non ha mai vestito la maglia di una Nazionale…
- Quindi è eleggibile?
- Così dicono i regolamenti.
- Restiamo in Italia. Segue il campionato di Eccellenza? È davvero quel niente che in molti sostengono?
- Io so una cosa: la serie A che ho giocato io a Milano era un campionato coi fiocchi. È vero che sono passati tanti anni, quasi 30, ma ribadisco e sfido chiunque a dire il contrario: quello era un campionato bellissimo e tecnicamente di livello.
- Mentre quello attuale…
- No.
- Proposte?
- Obbligo di schierare solo giocatori italiani con 2 stranieri veramente forti per squadra. Gente che venga in Italia per insegnare e trainare i migliori verso l’alto. E i nostri giovani più dotati, se lo vogliono e se hanno offerte, che vadano pure all’estero! A crescere, a mettersi alla prova, a capire cosa veramente valgono. Accompagnati e sostenuti dal club e dalla federazione. Si tratterebbe di un investimento.
- C’è chi sostiene che sia il Pro 12 il campionato adatto a formare i nostri migliori prospetti. È d’accordo?
- Assolutamente: no! Chi lo sostiene è un folle e dimostra di non conoscere il vero livello del Pro 12. Si tratta di un torneo durissimo, dove giocano squadre di grandissima consistenza, anche fisica. Ventenni in Pro 12? Sì, ma a dosi piccolissime e secondo progetti equilibrati di impiego. Se qualcuno vuole provare il contrario, lo faccia pure. Ma si adegui alle esigenze, e metta su una rosa di almeno 50 elementi. Squadre zeppe di giovanissimi in trasferta a Belfast o a Dublino…? Sarebbe criminale.
- Uno sguardo alla Nazionale. O’Shea è all’altezza del compito che lo attende?
- Parliamoci chiaro. Vista l’attuale oggettiva debolezza della base, chiunque prenda in mano le sorti della Nazionale italiana è destinato a sbattere contro una montagna di problemi. E a cogliere risultati in linea con le premesse. Non è questione di “chi è il ct”, ma di “cosa ha per le mani il ct”. Al momento: molto poco.
- Quindi, il rugby italiano di cosa avrebbe/ha bisogno?
- Di una rete di club dilettantistici forti e attrezzati. Credibili quanto a competenze tecniche e affidabili quanto a formazione dei giovani. Ne servirebbero almeno 300. Che non ci sono. Quando li avremo potremo cominciare a parlare di professionismo. Non prima. Quello attuale, purtroppo, è un professionismo che di… professionale ha veramente poco.
- Perciò, prima di tutto?
- Dare forza ai club. Solo allora potremmo sperare che il vento dell’alto livello internazionale non ci metta in ginocchio.
- E Conor O’Shea?
- Al momento: semplicemente ingiudicabile.
Foto Elena Barbini