In pensione forzata a 42 anni: la parola ai “vecchietti” del rugby
C’è chi la prende con filosofia e chi proprio non la manda giù. Chi sostiene che in fondo ci sta e chi può dire di aver chiuso in bellezza. Il pensionamento forzato a 42 anni è la prassi per quei pochi ma appassionatissimi rugbisti italiani che si ostinano a calcare i campi oltre la fatidica soglia degli anta. Speriamo con questo articolo in due capitoli di aver riaperto una discussione in realtà mai sopita, tra chi pensa che in fondo il limite agonistico stabilito dal Coni (che esiste analogamente nel pugilato e in alcuni sport di combattimento) sia una norma giusta per tutelare la salute degli atleti e chi la vede come un’ottusa imposizione, che nel resto del pianeta ovale non esiste. Nel frattempo la fatidica soglia è arrivata anche al termine di questa stagione sportiva per diversi “irriducibili”. Come annunciato ne abbiamo intervistati quattro, tutti reduci da un’ultima e intensa stagione in Serie B.
Fabio “Hogan” Berzieri potrebbe candidarsi alla guida del “partito del no”. Il carisma non gli manca e oltre alla simpatia strabordante riesce a trasmettere subito l’attaccamento e la voglia di chi, se glielo permettessero, scenderebbe in campo anche domani, in testa ad un branco di giovanotti da guidare all’assalto del match. Le ha vissute così le sue ultime stagioni, da chioccia inesauribile, in particolare l’ultima sempre in campo e farcita dalla bellezza di 11 mete, perno dei carrettini biancorossi. E pensare che ha potuto giocare per un pelo, anzi per un giorno. Nato il 2 luglio 1975 si è iscritto perché all’inizio dell’ultima stagione sportiva, partita ufficialmente il 1 luglio 2017, non aveva ancora effettivamente compiuto i 42 anni.
“Mi rode perché questa regola c’è ma solo in Italia. In Francia, nei Paesi anglosassoni, nel resto d’Europa non c’è. E’ un peccato perché molti che finiscono sarebbero ancora validi”, attacca Hogan, rivendicando prestazioni e numeri invidiabili. “La mia ultima stagione l’ho chiusa con 22 partite e 11 mete”, sottolinea, “Subire questa imposizione mi secca, la trovo forzata. Magari si potrebbe introdurre una visita agonistica più approfondita, per chi vuole continuare, e spostare la responsabilità dopo i 42 anni dal presidente del club al giocatore”.
“Io abito a Fiorenzuola, dove sono cresciuto e ho iniziato con il rugby prima di passare a Noceto, Parma sponda Gran e Piacenza”, racconta, “Hanno la squadra in C2, dove avrei potuto dire la mia ancora per qualche anno, posto che anche in B mi difendo ancora. Secondo me è meno pericoloso del campionato Uisp, che non essendo affiliato Coni non mette limiti di età ma si va in campo spesso poco allenati e quindi rischiando di più”.
Come ti sei trovato nel ruolo di chioccia? “Ho sempre avuto un rapporto molto buono con i giovani. Poi la mischia è una squadra nella squadra. Tutti i giovani venivano a chiedere consigli, volevano imparare da chi ne ha viste tante. Poi ci sta anche che a un ventenne secchi fare panca ma se non lanci meglio del vecchio e se in mischia spingi meno è giusto fare gavetta. Oltre allo scatto, che io non ho più, servono tante altre qualità”.
E adesso? “Da giocatore mi resta il Rugby League, dove non c’è limite”, specifica subito, “Mi tengo in forma per il Mondiale Classic a Bermuda, sperando in un’altra convocazione. E anche il beach rugby, con gli Strani Tipi. Sul futuro vedremo, potrei mettermi ad allenare. Spero di restare a Piacenza. Altrimenti vado a dare una mano a Fiorenzuola. Sono ancora fresco di campo, più che al minirugby penso di poter essere utile alla prima squadra o in Under 18”.
Dall’altra parte della barricata rispetto al Berzieri si trova Sebastian Damiani, nato nel 1976, suo ex compagno di squadra al Gran Parma. Mediano di apertura e centro cresciuto nel Bigua di Mar del Plata, ha concluso la sua lunga carriera (una decina di stagioni in massima serie tra Parma e Crociati) nel doppio ruolo di allenatore e giocatore del Lecco, club con cui ha iniziato la sua avventura italiana in C1 a fine anni ’90 e in cui è tornato cinque anni fa mettendo radici in riva al lago con la sua famiglia.
“Sinceramente, una persona che sta bene dovrebbe poterlo fare finché se la sente. Uno che ha fatto un percorso ad alto livello si porterà sempre dentro la voglia di mantenersi in forma”, premette, prima di svelare il suo punto di vista, “Ma penso anche che ci sia una sicurezza personale da salvaguardare, il corpo cambia velocemente dopo i 40 anni. E poi bisogna pensare ai giovani, lasciare spazio ad altri giocatori. Poi c’è chi come me fa allenatore-giocatore, mi sono già mentalmente preparato al cambio di prospettiva. Finito di giocare voglio dare tutto me stesso per trasmettere. Insomma, c’è un tempo per giocare e un tempo per allenare o cambiare percorso in altri modi, sempre restando nell’ambiente. Anch’io se potessi giocherei fino a 50, ma bisogna essere un po’ realisti. Ho avuto possibilità di giocare ad alto livello, adesso sono sereno: a 42 anni passo il testimone volentieri”.
“Dopo i primi tre anni a Lecco ho avuto l’occasione di fare il grande salto da C1 al Top 10 grazie ad Achille Bertoncini”, ricorda, “Poi mi sono tolto la soddisfazione di salire in A2 e in A1 con Noceto prima di confluire nella franchigia Crociati e infine tornare a Lecco. Una bella realtà e una città splendida, in cui ci troviamo benissimo. L’anno prossimo farò da tecnico sia in Serie B sia con l’Under 18”.
Com’è stata quest’ultima stagione in B? “Avevamo un gruppo giovane, all’andata è stata dura ma nel ritorno abbiamo trovato l’amalgama giusta vincendo otto partite su undici, chiudendo settimi. La vittoria all’ultima giornata con la capolista Cus Milano è stata la ciliegina. Come mia ultima partita non potevo chiedere di meglio, esco con il sorriso. Vinto 23-19 in rimonta, davanti a un pubblico di amici, tra cui tanti ex Parma: un ricordo stupendo che porterò dentro sempre. E poi una grande festa a sorpresa, per cui ringrazio la società e tutte le persone che mi hanno voluto salutare”.
Chi la prende con filosofia è un altro oriundo argentino che ha dato tanto al rugby di casa nostra. Il mediano di mischia Lisandro “Lichi” Villagra, classe 1976, è arrivato nel Belpaese nel 1997 e dunque ha trascorso metà della sua esistenza in Italia. Cresciuto nel La Tablada, storico club di Cordoba, dopo gli anni a Viadana (promozione in massima serie) è passato per Gran Parma, quattro stagioni a Prato (culminati con la promozione in Eccellenza contro L’Aquila) e sei stagioni a Recco in Serie A da giocatore-allenatore, incarico che ha mantenuto anche all’Amatori Capoterra, club sardo con cui ha dato l’addio al rugby giocato.
“E’ un limite un po’ strano e insolito. Se qualcuno sta bene non vedo perché vietare. Mi pare più logico smettere per volontà”, riflette, “Prima o poi comunque succede per tutti, non faccio drammi. Quest’ultima stagione tra l’altro l’ho giocata un po’ a singhiozzo, anche problemi di cittadinanza. Diciamo che la squadra soprattutto all’inizio ha perso tante partite che avrebbe potuto vincere, lasciando troppi punti per strada. Poi siamo andati meglio, finendo al quinto posto, dietro le più forti del Girone 1”.
Com’è stato giocare l’ultima partita? “Molto emozionante, in trasferta a Bergamo e vincendo. La squadra mi ha ringraziato, prima e dopo, sono uscito dal campo con tutte le maglie per terra, una cosa bellissima e che non avevo mai visto. Poi il corridoio d’onore, la maglia firmata e un quadro da parte del club. Ringrazio davvero tutti per queste attenzioni”. Per il futuro? “Voglio continuare ad allenare, mi piace dedicarmi ai giovani e farli crescere”.
L’ultimo irriducibile a cui lasciamo spazio è il pilone Eros Caeran del Paese. Un altro fortunato del ‘75 che ha potuto giocare ben oltre i 42 anni suonati.
“Sono arrivato proprio al limite, ne vado fiero”, rivendica con orgoglio, “E’ un po’ amara adesso. Secondo me qualche bel secondo tempo avrei potuto farlo per qualche altra stagione. Più che altro per la voglia, che ancora ci sarebbe”. “Ho provato anche a informarmi presso il Coni”, confessa, “Comunque dopo una certa età, specialmente giocando davanti, gli sforzi diventano pesanti. E’ chiaro che servirebbe qualche controllo in più. Ma il limite imposto mi sembra anacronistico”.
D’altronde, il gigante buono del Paese, che con il fratello ha una ditta che rifornisce di lacci e nastri calzaturifici ed industrie tessili, gioca da quando aveva neanche 6 anni. “Ho iniziato a 5 e mezzo, a Montebelluna, dove sono nato. Poi sempre squadre trevigiane, tra Asolo, Tarvisium, Mogliano e infine Paese. 37 anni di rugby in tutto, dal 1981 al 2018”, racconta Caeran, che ha avuto il privilegio di ritirarsi con il botto, conquistando la promozione in Serie A. “Devo essere onesto, l’ultima stagione è stata bellissima. Oltre alla promozione, che avevamo già sfiorato l’anno scorso, la società mi ha riservato una sorpresa finale. Mi aspettavo un semplice saluto, invece sono entrato in campo da solo mentre lo speaker leggeva il mio curriculum di rugbista. Poi un regalo incredibile: una mischia che si intreccia a forma di cuore in ferro battuto. Ringrazio il Paese, davvero un bell’ambiente, club sano e con valori vecchio stile. E poi ovviamente devo ringraziare tanto la mia compagna e ai miei due figli. In fondo togli a loro per la tua soddisfazione personale. Sono fortunato perché mi hanno seguito e spronato sempre”.
Dì la verità, la vera soddisfazione per te, pilone, è stata un'altra… “Haha, è vero”, ammette, “Ho piazzato per la prima e ultima volta in vita mia, durante l’ultima partita di campionato, e l’ho anche messa dentro. Davanti ai pali e via, per carità. Però mi ritiro senza errori nei calci. Quanti possono dire di chiudere la carriera con 100% dalla piazzola?”.