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A cadenza ormai quasi regolare, la situazione contingente e il futuro prossimo della franchigia delle Zebre diventano temi di condivisa e spesso appassionata discussione fra appassionati e semplici “fruitori” del rugby made in Italy. 

A pesare sulla rilevanza dell’argomento sono, inutile provare a nascondersi dietro a un dito, le vicissitudini sportive di una formazione che in Pro 12 pare destinata a non schiodarsi dalle posizioni 11 o 12 della graduatoria generale. 

Un po’ poco (eufemismo) sostengono quanti collegano il fatto al costo che l’intera operazione comporta per le casse federali. Posizione naturale e scontata, niente che non si potesse prevedere stanti le disponibilità economiche (sottinteso: non rilevanti) e la non eccelsa levatura media della rosa a disposizione di coach Gianluca Guidi. Il bilancio da poco approvato si è chiuso con un passivo non particolarmente pesante (meno di 100 mila euro) e anche se sull’effettiva esposizione debitoria nei confronti dei fornitori  circolano (non confermate) voci di cifre a sei zeri, è evidente che è l’insieme stesso dell’operazione a essere messo sotto accusa. Da parte, in primo luogo, di chi vedrebbe altre collocazioni geografiche, seguito a ruota da chi, invece, ne gradirebbe la totale cancellazione (e le risorse rese disponibili destinate a finanziare i club di Eccellenza?). 

Proviamo (proviamo!) a fare un po’ di chiarezza. Le Zebre sono finite a Parma dopo il fallimento degli Aironi di base a Viadana. Fallimento che si sarebbe potuto evitare con costi non impossibili? Probabile. Qualcuno giura che è così. Ma non è questo il punto. Le Zebre sono a Parma perché, molto banalmente, all’epoca dell’uscita di scena degli Aironi, nulla di diverso dalla collocazione nella capitale del Gran Ducato, emerse all’orizzonte alla voce “soluzioni alternative”. Una franchigia che disputa un campionato transnazionale come il Pro 12, paracadutata nel cuore di una città con discreti (ottimi) trascorsi ovali, nel cuore di una regione ricca di imprenditori capaci e di realtà industriali di alto profilo ma praticamente avulsa da qualsiasi consolidato legame con il territorio e con la storia sportiva del luogo, era logico che non attirasse volumi interessanti di interessi. Né mediatici, né economici, né di pubblico. E così è stato. 

Nel momento in cui, preso atto di quanto avvenuto e fotografata la realtà, si prenda in considerazione l'idea di un trasloco, le soluzioni non sono decine. Ma poche unità. Una si chiama Roma, chiara e ragionevole declinazione geopolitica del concetto di delocalizzazione. Roma avrebbe (sulla carta) il vantaggio di un posizionamento strategico di primo piano e di un bacino potenziale d’utenza sicuramente importante. Posto che con Roma nel ruolo di ineguagliabile link sinergico per visibilità e risorse, la capacità di attrarre partner commerciali risultasse significativamente incrementata, avremmo la possibilità (teorica, insisto) di una franchigia con budget (finalmente) a due cifre. E, conseguentemente, la (teorica, ancora) possibilità di competere per posizioni in classifica meno a piè di lista e marginali. Altra soluzione praticabile, anche se al momento esclusa dal presidente Alessandro Vaccari, è quella di Calvisano. Dove ci sono strutture adeguate (il centro San Michele) e una cultura sportiva che vede il rugby al vertice della piramide degli interessi sportivi del territorio. Venisse (finalmente) costruito/ampliato lo stadio del rugby a Brescia… Certo che, con una o due (auguri al Brescia Junior di Marco Pisati) formazioni di club nel massimo campionato, una franchigia in Pro 12 e un tessuto regionale particolarmente ricco di realtà locali, la soluzione lombarda appare tutto meno che infondata

Altro pare non esserci. E intorno alla certezza dell’abbandono di Parma poco è fiorito, anche solo in termini di indiscrezioni o ipotesi velleitarie. Si è parlato di Torino, qualcuno ha azzardato Monte Carlo. Vedremo. Certo è che una franchigia tutta e solo sulle spalle (finanziarie) della federazione…

 

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Foto Daniel Cau