Springboks, una Nazionale attraversata dalla storia e dal mito
Poche volte accade che lo sport riesce ancora a segnare la storia politica e sociale di uno stato ma, quando ci sono di mezzo gli Springboks, niente è mai scontato.
Sin dalla sua apparizione, il Sudafrica ha portato a casa successi in modo mai banale, successi che si sono ritagliati uno spazio importante nell’immaginario degli appassionati (e non), successi che hanno scritto pagine di sceneggiature hollywoodiane e di libri di storia.
Difficilmente il Sudafrica è stato visto come un possibile candidato alla vittoria, almeno all’esordio delle edizioni in cui è accaduto (forse solo nell’edizione di quest’anno - in virtù della vittoria del The Championship dopo alcuni anni di difficoltà, ma la sconfitta al debutto contro la Nuova Zelanda aveva immediatamente ridimensionato la questione).
Nel 1995 l'esordio in Coppa del Mondo, per la prima volta, con un paese devastato dalle divisioni, con gli Afrikaner che pensavano - con la fine dell’Apartheid, la liberazione di Mandela e i profondi cambiamenti delle politiche governative e sociali - sarebbe arrivato il tempo della vendetta per le minoranze di colore.
L’ordine impartito da Madiba, durante il celebre discorso tenuto l’11 febbraio 1990 dalla City Hall di Città del Capo (poco dopo la scarcerazione), però fu: “prendete i vostri fucili e gettateli in mare”.
Da lì si iniziò, faticosamente, a portare avanti un percorso di unione sociale attraverso lo sport e, in particolare, attraverso la Nazionale di rugby.
Questo non vuol dire che durante il Governo Mandela non siano arrivate anche delle proposte, da parte di alcuni collaboratori interni al partito, di abolire gli Springboks per quello che avevano significato ai tempi del dominio bianco, ma il percorso di pacificazione fu portato avanti e affrontato con decisione dal Presidente.
Fino ad arrivare alla storica premiazione del 24 giungo 1995, giorno della vittoriosa finale contro gli All Blacks per 15 a 12, in cui Mandela premiò da pari (in tutti i sensi, indossando anche la stessa maglia numero 6, del Capitano François Pienaar) la Nazionale di rugby all’Ellis Park di Johannesburg.
Con un atto simbolico davvero molto forte, un messaggio sociale ben preciso, il fratello nero che premia il fratello bianco e partecipa con lo stesso entusiasmo alla vittoria di un paese che appartiene entrambi. Non dall’esterno, ma dall’interno, vestendo - letteralmente - gli stessi panni.
Le divisioni sono ancora in corso e ci vorranno decenni per appianarle tutte, soprattutto quelle riguardanti il piano sociale, con le township e le difficoltà ancora presenti all’esterno (e all’interno) delle grandi città.
Quell’occasione, però, ha messo una grossa pietra su cui costruire qualcosa di importante.
Nonostante il Tri Nations non era stato ancora mai disputato, il Sudafrica aveva sconfitto quelle che sarebbero diventate ancora di più le due eterne rivali (Australia all’esordio, vittoria per 27-18, e la Nuova Zelanda in finale) con, in mezzo, la sfida con le Samoa Occidentali e la Francia.
La squadra del 1995 è rimasta nella leggenda non solo per quello che è stata capace di dimostrare sul campo, ma anche per il triste destino che ha coinvolto molti componenti. Con delle morti arrivate troppo presto a strapparli dagli affetti e dal mondo dello sport. Il primo è stato proprio l’allenatore Kitch Christie che, dopo aver guidato la Nazionale senza mai perdere un match, morì per leucemia. Era il 22 aprile 1998, aveva 58 anni.
Il secondo fu il flanker Ruben Kruger che, dopo aver diviso la terza linea del Mondiale 95 con il Capitano Pienaar e il numero 8 Mark Andrews, è morto a soli quarant’anni (non ancora compiuti) per un tumore al cervello. Era il 27 gennaio 2010.
Poi è stata la volta di Joost van der Westhuizen, il leggendario mediano di mischia che, in quell’edizione, aveva fermato praticamente chiunque (Jonah Lomu compreso) ed era riuscito ad orchestrare al meglio il gioco degli Springboks insieme a Joel Stransky, mediano d’apertura. Era il 6 febbraio 2017 e la SLA lo portò via due settimane prima di compiere 46 anni.
Quest’anno, pochi mesi prima della terza storica vittoria, il destino ha deciso di strappare alla vita anche James Small (il 10 luglio), morto a cinquant’anni per un infarto, e Chester Williams, il primo nero a vestire la maglia degli Springboks. Le due ali della squadra del 95, il numero 14 e il numero 11, volati via - allo stesso modo, per un infarto - a poche settimane di distanza.
Proprio nell’anno di Siya Kolisi, primo Capitano nero della squadra e primo Capitano nero ad alzare la Web Ellis Cup, Chester Williams muore. Quasi come se la vita volesse marcare, in modo tristemente romantico, il momento del passaggio delle consegne. Era il 6 settembre, aveva solo 49 anni.
Letteralmente, dalla storia al mito.
Dopo risultati altalenanti, nel 2007, con Nelson Mandela ancora in vita, gli Springboks hanno festeggiato la seconda Coppa del Mondo.
All’epoca erano - insieme all’Australia (vincitrice nel 1991 e nel 1999) - la squadra più titolata al mondo (prima in percentuale per i risultati).
L’unico giocatore rimasto in squadra dal 1995 era il pilone sinistro Os du Randt (primo sudafricano ad aver vinto la Web Ellis Cup 2 volte in carriera, raggiunto quest’anno da François Steyn).
Il Capitano era il tallonatore John Smith che, con tanti compagni di indubbio valore, ha riportato sul tetto del mondo la Nazione arcobaleno.
Ne cito alcuni (senza far torto a nessuno, spero) Schalk Burger, Bismarck du Plessis, Fourie du Preez, Bryan Habana, J. P. Pietersen, François Steyn e Percy Montgomery. Primo in classifica per punti messi a segno con la maglia degli Springboks (893). Dopo i due terzi posti al Tri Nations nell’edizioni precedenti alla Coppa (2006 e 2007), il terzo posto nell’edizione del 1999 e l’eliminazione ai quarti del 2003, il Sudafrica tornò a vincere la partita più importante. Giocata e vinta il 21 ottobre 2007 a Saint Denis, contro l’Inghilterra, avrebbe potuto essere una finale tranquilla e senza polemiche? Sì, ma non lo fu.
In un match estremamente combattuto, deciso ancora una volta solo dalle punizioni, venne annullata una meta al numero 11 Mark Cueto - per colpa del piede sinistro giudicato fuori dal campo - dall’arbitro irlandese Alain Rolland e dal TMO australiano Stuart Dickinson.
Proprio quell’edizione aveva, come negli anni precedenti, portato quasi tutti i sudafricani davanti al televisore - con la speranza di poter rivivere la grande gioia della prima edizione - e, come sappiamo, anche un giovane Siya Kolisi. Quelli furono gli anni in cui un bambino coltivò il sogno di scrivere pagine importati per la sua vita e per quella di milioni di sudafricani.
Difficile immaginare come andò, ma il film Invictus (2009) di Clint Eastwood può lasciarlo immaginare; nelle varie sequenze, infatti, viene mostrato un bambino povero e di colore che cerca di origliare la partita dalla radio di una macchina della polizia. Senza farsi notare. Piano piano, con il crescere dell’entusiasmo e della speranza, i due poliziotti vicino a lui smettono di allontanarlo e lo fanno stare con loro. Festeggiando in un caldo abbraccio la vittoria finale. Troviamo tantissimi uomini e tantissime donne di tutte le età, insieme ai loro bambini, impegnati a condividere la televisione nei bar e nelle case, non solo tra neri, ma anche in situazioni “miste”.
Ecco, deve essere andata così.
Segnando un’altra bellissima pagina di storia e sport.
Credo sia davvero bello pensare che la nazionale di Rassie Erasmus, Siya Kolisi, Bongi Mbonambi, Lood de Jager, Eben Ezbeth, Pieter-Steph du Toit, Duane Vermeulen, Faf de Klerk, Handré Pollard, Makazole Mapimpi, Willie le Roux, François Steyn e di tutti gli altri, sia nata non solo nelle scuole o sui campi, ma anche nelle partite guardate davanti alla tv delle township o dei quartieri alti, dei bar o dei pub.
Il Sudafrica diventa l’unica squadra ad aver vinto la Coppa del Mondo in due stadi che hanno ospitato la manifestazione iridata sia per rugby, che per il calcio (Stade de France di Saint Denis e International Stadium di Yokohama), continua a non subire mete nella partita più importante e quest’anno, per la prima volta, ne ha segnate due. Entrambi per mano di due giocatori di colore, Makazole Mapimpi e Cheslin Kolbe.
È arrivato ad ospitare anche la Coppa del Mondo di calcio (con una delle ultime apparizioni pubbliche di Nelson Mandela, primo paese africano ad ospitare la manifestazione).
Era il 2010 e nella partita inaugurale, l’11 giugno, quella tra lo stesso Sudafrica e il Messico (finita 1-1) un altro ragazzo delle township realizzava il suo sogno.
Il centrocampista Siphiwe Tshabalala ha segnato il primo goal della manifestazione, con un bel tiro all’incrocio dei pali, al First Bank National Stadium, poco distante dalla baraccopoli di Soweto, dove era nato e cresciuto.
Insomma, il sentimento nazionale sudafricano nasce dall’unione di tantissime cose, con tanti problemi da affrontare e tante cose ancora da fare.
Un’unione che potrebbe aver messo un’altra pietra importante e potrebbe aver chiuso un ciclo, un ciclo iniziato 24 anni fa, del lungo cammino verso la libertà tanto cara a Nelson Mandela, ma anche al presidente che condivise il Nobel per la pace con lui nel 1998: Frederick De Klerk (ultimo Presidente bianco del Sudafrica dal 1994).
Perché non si può unire un Paese da soli, bisogna sempre farlo insieme a qualcun altro. A noi appassionati non resta che aspettare la prossima edizione e i prossimi anni, per vedere che piega prenderà la storia e per essere pronti, ancora una volta, ad assistere alle gesta di uomini pronti a coprirsi di gloria.
di Simone Ciancotti Petrucci