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Non è facile sostenere che l’innalzamento del livello medio del rugby italiano passi attraverso un rilancio del massimo campionato domestico. Quantomeno: farlo senza arrossire.

Chiunque abbia a cuore le sorti del nostro movimento ovale deve convenire su un fatto: parametrato sui valori del rugby di (effettivo) alto livello internazionale, quello espresso dalle nostre 4 – 6 migliori squadre di club è, a tutti gli effetti, e senza offesa, davvero poca cosa.

Provare per credere! Oggi la tecnologia ci mette a disposizione mezzi e risorse che sarebbe colpevole mancanza non usare. Le immagini dei campionati inglese e francese di seconda (Championship) e terza divisione (Federal 1) sono abbastanza facilmente reperibili in rete, e ci dicono con assoluta e disarmante oggettività che, oggi, le squadre italiane che hanno ottenuto l’accesso agli ultimi play off scudetto andrebbero incontro a una quasi certa retrocessione nel secondo campionato inglese, mentre si salverebbero (non senza qualche difficoltà) del torneo francese di terzo livello.

Al contrario, le nostre due franchigie di Pro 12, potrebbero competere in Championship, puntare alla vittoria finale del Federal 1 e sopravvivere (pur se con molta fatica) in ProD2. Prevengo l’obiezione: trattasi di congetture. Vero. Ma basate su una certa quota di dati di fatto. Primo fra tutti: il budget a disposizione. Che per la media delle nostre formazioni di Eccellenza non raggiunge il milione di euro annuo (spesso: tutto compreso, dall’under 6 a salire), mentre lo supera abbondantemente sia in UK sia Oltralpe.

Detto della dotazione di palanche a disposizione, per crudo e impietoso che possa apparire, tutto il resto va di conseguenza. Pochi soldi significano poco staff, in qualità e numero delle figure di sistema (Le FFOO dispongono di tre video analisti e dei tecnici del settore giovanile più pagati d’Italia, ma trattasi di dipendenti del ministero degli interni). E quel poco, dovendo restare entro i confini di una tasca di dimensioni ridotte o ridottissime, salvo eccezioni che confermano la regola, vale (tutti) i (pochi) soldi che costa.

Lo stesso dicasi per criteri e risorse organizzative, compresa la logistica. Mi faceva notare un preparatore atletico del Pro 12, che “il costo energetico pagato da un giocatore di 2 metri per 125 chili costretto a viaggiare tre ore seduto in Ryan Air e altrettante su un bus buono per gli scolari di una scuola media” equivale a cominciare la partita sotto di 12 punti, d’inverno anche di 20. Ogni volta che si viaggia. L’alternativa a un tale stato di cose esiste, ma è una sola: volo privato. C’è chi ce l’ha.

E infine il capitolo giocatori. C’è in giro gente (chi scrive è fra questi) che, negli anni, ha fatto la fortuna dei super discount alimentari. E che, invecchiando male, è arrivata, in buona fede ma mentendo sapendo di mentire, a sostenere che il crudo che arriva dalla Cina  “in fin dei conti, in confronto al San Daniele o al Parma…”. Ma che costui o costoro lo pensino, non significa che sia vero!
L’elenco dei 10 giocatori di rugby più pagati nel 2017 in Europa dice che due di loro (uno a Belfast, l’altro a Dublino) vestono maglie del Pro 12. Non ci dice (mancano i dati) quali sono gli altri 190 paperoni della bislunga del Vecchio continente. Scommettiamo che (development players a parte) per trovarne in forza a Treviso o Zebre, occorre scendere oltre la posizione n.201? Nessuna sorpresa e nessuno scandalo, dunque, se alla fine arriviamo sempre nel gruppetto di coda, se non proprio ultimi.

Il tutto nella convinzione, apodittica finché si vuole ma difficile da contestare, che il mercato sia un’entità pensante, razionale, affidabile nei suoi meccanismi e nelle sue conclusioni. Incontestabile. Senza cioè escludere a priori che qualche manovale pagato come un ingegnere progettista capo si sia (bravo lui e ****** chi l’ha valutato) intrufolato nel mucchio e abbia fatto il colpo della vita.

Concludendo: il rugby italiano ha bisogno di (continuare a) stare in Pro 12, o in qualcosa che al torneo celtico assomigli per qualità e rango tecnico complessivi. Solo che per farlo non è sufficiente esserci, far parte della compagnia, avere l’invito e la licenza.  Occorre dell’altro. E non si tratta di poca cosa.

Un po’ come quando, ai tempi del liceo, arrivava la settimana della “festa di compleanno del Pucci”. Un intero week end in villa, con uso di piscina, sala cinema, cucina, dispensa, amache, sofà, camere degli ospiti in barchessa, sorella (più grande) e cugine del festeggiato a disposizione. Solo che con l’equivalente della quota da versare alla cassa comune per il regalo, io (e tutti gli altri “normali” del gruppo che alla sontuosa due giorni non abbiamo mai preso parte) ci pagavamo la benzina del Dyane per 6 mesi e una settimana a Jesolo lido. In tenda.
 

Foto Alessandra Lazzarotto