Micky Steele-Bodger: il carpentiere d’acciaio
Articolo pubblicato su Allrugby di giugno 2019, numero 137
di Giorgio Cimbrico
Richard Burton giocò contro di lui e disse: “Può mai capitare di aver a che fare con un uomo dal nome più minaccioso?”. Perché Micky si chiamava Steele (acciaio) e Bodger (carpentiere) e così è tutto più chiaro: un flanker spietato e un mediano di mischia improvvisato quando, nell’ultima partita con la Rosa addosso, contro la Francia, gli toccò prendere il posto di Richard Madge, spianato dai “mangiarane”. E ora che se n’è andato dopo aver passato il traguardo dei 93 anni, lo ricordano come il presidente dei Barbarians. Giusto: trent’anni passati a vivere la mutazione dal rugby goliardico e disinvolto che lui amava a quello d’oggi, con una difficile sopravvivenza (che i soliti spietati etichettano anacronistica), non possono essere dimenticati. Ma la scena è più vasta e i colori del film della sua vita non possono fermarsi al bianco e al nero dei Baa-baas: Micky nel rugby è stato tutto quel che si può chiedere, forse di più. Basta guardare la fotografia ripresa da qualche sito e da qualche giornale dopo la notizia della sua morte, il 9 maggio: un benevolo patriarca, una pensosa statua di Rodin, un vecchio gentiluomo con una giacca che è il trionfo dell’araldica ovale, la testimonianza in panno blu di un mondo sparito, di un Impero che, al tempo della sua nascita, nel ’25, era anche più vasto, di quello già immenso lasciato da Vittoria. Micky andò al Caius di Cambridge e calpestò il cortile in cui Lord Burghley, poi Marchese di Exeter, stabilì il record: percorrere il periplo mentre venivano scanditi i dodici rintocchi di mezzogiorno. In “Momenti di gloria” il primato viene attribuito a Harold Abrahams e l’aristocratico, avutane notizia, rifiutò di vedere il film, senza mai recedere dalla decisione. Anche dopo il trasferimento all’università di Edimburgo, per ultimare gli studi di veterinaria – seguendo la tradizione di famiglia tracciata dal padre Harry e imitato dal fratello Alasdair – Micky rimase legato a Cambridge e nel 1948 fondò lo Steele-Bodger XV, sparring partner per la squadra di Cambridge che si apprestava ad affrontare Oxford nel Varsity Match. MSB aveva giocato quella partita di inizio dicembre due volte, nel ’45 e nel ’46: stava per iniziare una parentesi breve e felice: dalla maglia multicolore degli Harlequins a quella bianca dell’Inghilterra. Nove caps tra il ’47 e il ’48 prima di esser messo fuorigioco per un infortunio ai legamenti del ginocchio. Oggi tornerebbe in campo dopo qualche mese. Allora, a 23 anni, era la fine della corsa per chi il 31 gennaio 1948, a Cardiff, aveva segnato una meta storica: la prima dei Barbarians nel dopoguerra e la prima segnata a una nazionale, l’Australia. Micky non mollò gli animali che aveva in cura e non mollò il rugby: per 25 anni selezionatore dell’Inghilterra e più tardi dei Lions, per due anni presidente della Rfu, chairman dell’International Rugby Board, senza mai rinunciare alla carica di presidente dell’East India club: il profumo dell’Impero sale forte come un falò di legno di sandalo. Nel 1988 diventa presidente dei Barbarians e tocca a lui firmare le convocazioni per riunire i membri magnificamente onorari del club senza sede, dal motto che non lascia dubbi: “il rugby è un gioco per gentiluomini di tutte le classi sociali, non lo è per un cattivo sportivo a qualunque classe appartenga”. Una galleria senza fine di volti, segnati dalla gioia e dall’orgoglio di esser entrati a far parte di quell’ordine cavalleresco. Più di trent’anni al vertice, festeggiati un anno fa quando Micky era a Twickenham per il caleidoscopico 63-45 con cui i suoi scacchi bianchi e neri diedero il “matto” all’Inghilterra. L’ultima visita alla Fortezza è di pochi mesi fa: volle scendere negli spogliatoi e congratularsi con gli inglesi che l’avevano scampata bella con i Pumas. C’era aria di addio. Delle centinaia di messaggi, il più commovente è quello di Justyn Harrison, vecchio Wallaby: “Assaporava la Guinness a occhi chiusi, guardava dritto in faccia e quando raccontava, diventava Hemingway”. Un monumento che non aveva mai dimenticato di essere un uomo, il presidente della Società dei Poeti Estinti. Addio.
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