Pieter-Steph Du Toit: la saga di Sigfrido
Articolo pubblicato su Allrugby numero 142
Prima di tutto, nome e cognome: Pieter Stephanus, abbreviato in Steph, è olandese; du Toit è francese. Le commistioni, gli incroci sono la storia antica del Sudafrica, dei popoli che facevano rotta verso sud per lasciare un’Europa straziata dalle guerre di religione, alla ricerca di un avvenire diverso, migliore o per trovare un luogo dove vivere secondo una propria morale, spesso rigida. Prima gli olandesi, i voer, quelli che noi chiamiamo boeri, poi gli ugonotti, protestanti guasconi e navarri. Un paio di secoli dopo, nell’Ottocento, i tedeschi di confessioni integraliste, come gli hamisch o i taboriti. Qualche esempio di cocktail, di interscambio tra l’una e l’altra etnia: Fran- cois Steyn, Pierre Spiess, Bismarck du Plessis. Come negli stati americani del Sud, poteva capitare che gli indigeni assumessero i nomi dei padroni: Pietersen e Maree sono esempi illustri di campioni e primatisti del mondo. Il Sudafrica è una biblioteca di Babele.
E ora non resta che passare alle radici famigliari. Piet, il nonno di Pieter, era un pilone che laggiù consideravano di esigua fisicità, 1,85 x 95 chili. Si coltivò a sufficienza per venir etichettato “Spiere”, “Muscoli”, e partecipò allo storico tour dell’autunno del 1960, il tempo dei punteggi risicati e della lotta senza quartiere: 3-0 con il Galles, 5-0 con l’Inghlterra, 8-3 con l’Irlanda e 0-0 con la Francia in uno dei più brutali match della storia. Pieter deve avere uno sbiadito ricordo del nonno: scomparso quando lui aveva quat- tro anni, nel ‘96.
Du Toit è il terzo sudafricano a conquistare l’Oscar di Giocatore dell’Anno dopo Schalk Burger nel 2004 e Bryan Habana, il ghepardo, nel 2007, l’anno del secondo titolo. Anche Burger – cittadino, il significato del cognome – possiede una buona storia famigliare: il padre, Schalk senior, oggi produttore di eccellenti vini nella regione del Capo, è stato Springbok, male per lui in uno dei periodi di più accentuato isolamento.
Il biondone Du Toit flanker è una delle grandi intuizioni di Erasmus. “Devo esser sincero - racconta Rassie – quando l’ho visto per la prima volta non mi è sembrato né carne né pesce. Per di più non dava l’idea di essere convinto di quello che faceva. Distratto, poco concentrato”. Lontano anni luce dal giocatore che oggi dice: “La condizione mentale, l’approccio psicologico se non tutto, è molto”.
Pieter è un gigante di 2,00 per 120 chili. In Sudafrica ne crescono molti così, baobab in movimento. È nel giro da tempo e l’esordio è di sei anni fa, quando ne aveva 21, a Cardiff. Molta panchina perché stava esaurendosi l’età dei titani Matfield e Botha e stava nascendo quella di Etzebeth e de Jager, un boero e un tedesco per tornare giusto un attimo ai lineamenti iniziali. Sul podio mondiale sale da terzo, nel 2015, incrociando il finale di partita di Burger, ma la sua è la parte del comprimario, quella dell’attore a cui sono consentite solo un paio di battute. In patria, a fianco del fratello Johan, anche lui fisicamente dotato, tre anni più giovane, qualche centimetro e qualche chilo in meno, transita dagli Sharks agli Stormers.
Il 19 novembre 2016 è in campo a Firenze, da seconda linea, in quella che Sergio Parisse definisce la più grande giorrnata del rugby azzurro ed è uno di quelli che lasciano il campo a capo chino. L’arrivo di Erasmus cambia il destino di molti, anche di Pieter, che non è il più distratto ragazzone che il ct aveva valutato con più di un interrogativo. Il 2 giugno 2018 gli cuce addosso i gradi capitano nel match di Washington, perso di un paio di punti con il Galles, che è per gli Springboks sempre un avversario rognoso. Intanto, la metamorfosi va avanti: una squadra che può contare su Etzebeth, de Jager, Mostert e Snyman che, messi uno sopra l’altro, superano agevolmente quota 8 metri, non può permettersi di dirottare un altro veloce pachiderma in terza linea? L’intuizione è vincente.
Senza avere l’aspetto minaccioso della maggior parte degli avanti in verde profondo, pur mantenendo un volto ingenuo, quasi adolescenziale (ma con naso michelangiolesco, ricordo di qualche duro scontro), du Toit si trasforma nell’uomo giusto al posto giu- sto, nell’area bollente del breakdown. Già attestato nella “sospetta” lista di quelli che ambiscono al premio toccato a molte aperture, a diverse ali, ad avanti come McCaw e Retallick, forza le opinioni della giuria lungo il percorso della Coppa del Mondo sino alla finale quando di fronte a lui sbiadiscono e perdono consistenza anche i “Kamikaze Kids”, Curry e Un- derhill. L’uomo del match è Duane Vermeulen – in questo caso, nome fiammingo -, il miglior giocatore del mondo è Pieter Steph du Toit: miglior placcatore del Rugby Champions (36 in partite), tra i migliori del Mondiale (61 placcaggi, tasso di successo 85%). Lo avesse avuto sottomano Leni Riefenstahl, la parte di Sigfrido sarebbe stata sua.
di Giorgio Cimbrico
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