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Giampiero De Carli fa il punto sulla situazione degli Azzurri, a un anno dal Mondiale. “Dobbiamo imparare a vincere quando le partite sono alla nostra portata”, dice il nuovo tecnico della mischia. Che non nasconde qualche dura verità. 

Di Gianluca Barca, pubblicata sul N.84 di Allrugby

 

Il trasloco professionale Giampiero “Ciccio” De Carli lo aveva compiuto a fine maggio quando, salutato l’Usap, si era unito alla Nazionale di Brunel, giusto in tempo per la trasferta alle Fiji, Samoa e Giappone. Quello familiare, invece, lo ha completato all’inizio di agosto, trasferendo col camion le cose di casa, da Perpignan a Calvisano, dove abitava prima di andare all’estero e dove torna da allenatore della mischia dell’Italia.

Tre partire con gli Azzurri, tre sconfitte: De Carli da dove vogliamo cominciare?

“Dalla verità, dalla dura verità”, risponde l’ex pilone della Roma, dello Stade Francais e del Calvisano che, quest’anno, con Marc Delpoux, sulla panchina del Perpignan,  ha subito anche la delusione della retrocessione dal Top14 al Pro D2. 

Benissimo: e qual è la dura verità?

“Che gli altri sono più bravi di noi, o almeno quanto noi, e che noi dobbiamo lavorare per ridurre gradualmente il gap che ci separa dai nostri avversari o per batterli quando ne abbiamo la possibilità”.

Pessimista…

“Tutt’altro. Sono sincero, realista e, a modo mio, fiducioso. Perché, vedete, se ogni volta che si perde si ricomincia a mettere in discussione tutto, dalle U16 in su, dal minirugby al presidente federale, da lì non si esce più. Io invece faccio l’allenatore e il mio compito è analizzare i fatti che sono di mia competenza: con Samoa abbiamo perso cinque mischie? Ho commesso degli errori? Dobbiamo lavorare perché la prossima volta ne perdiamo solo due, o magari nessuna. Devo studiare per non sbagliare più. E se facciamo così sono sicuro che possiamo migliorare. Invece…”

Invece?

“Invece qui da noi vedo un gusto perverso nel buttare sempre tutto a mare. Una sconfitta, due sconfitte e bisogna ripartire da zero, come se non si fosse mai fatto niente, non ci fosse una base sui cui contare”.

Veramente le sconfitte non sono una o due, ma tredici su quattordici partite…

“Vero, ma è qui che bisogna essere sinceri, duramente sinceri: noi  giochiamo contro squadre che sono mediamente più forti di noi, hanno giocatori migliori, più storia e più tradizione”.

Il solito alibi…

“Neanche per sogno. Qui sento gente riempirsi la bocca col professionismo, col fatto che la federazione italiana ha un budget di 40 milioni e che abbiamo perso contro formazioni che giocano sulla spiaggia con le noci di cocco…Le Fiji non hanno un budget da 40 milioni, ma hanno venti giocatori che guadagnano ventimila € al mese nelle squadre più forti del mondo! Nadolo gioca nei Crusders, è alto 1,98 e pesa 125  kg, con le accelerazioni di un velocista che noi ci sogniamo. Nalaga gioca nel Clermont, con cui un anno ha vinto il campionato francese e tre volte è arrivato in finale. Talebula  la scorsa stagione è stato il miglior marcatore di mete del Top14. E allora ci può anche stare che soffriamo le loro ripartenze, i loro contrattacchi sulle palle di recupero, o no? Però con le Fiji, a Cremona, un anno fa abbiamo vinto, e a giugno, a casa loro, abbiamo perso 25-14, loro hanno fatto tre mete e noi due. Quindi non siamo così lontani. Dobbiamo lavorare perché la prossima volta siamo noi a farne tre e loro due. Questi sono i discorsi che mi interessa affrontare. Non discutere se anche nel rugby dobbiamo sposare il modello tedesco, solo perché hanno vinto il mondiale di calcio e adesso l’organizzazione della Germania pare l’unica che funziona bene,  in tutti gli sport”.

E il fiasco della mischia contro Samoa e il Giappone?

“Benissimo, non mi nascondo. Con Samoa è andata male, molto male e bisogna essere duri. Ho sbagliato, l’ho detto, e solo chi non si mette mai in gioco non commette errori. Però dobbiamo anche guardare in faccia la realtà: Samoa si è presentata in campo con una mischia che pesava mille chili, e aveva: il pilone sinistro dei Tigers (Mulipola, ndr), il pilone destro dei Saracens (James Johnston, ndr) e il tallonatore del Clermont. In panchina c’era Census Johnnston, uno la cui mancanza si sente anche nel Tolosa, quando non c’è. Questo per dire che si trattava di una prima linea che metterebbe in difficoltà chiunque. Detto questo, non cerco giustificazioni, dobbiamo lavorare, devo lavorare,  per fare meglio. Abbiamo perso cinque mischie? La prossima volta non dovremo concedergliene più di due, o magari nessuna. Il punto è che in campo ci sono anche gli altri e gli altri, spesso, sono molto bravi. Più bravi di noi”.

Anche il Giappone?

“Anche il Giappone, sì. I giapponesi sono quasi dieci anni che lavorano con grandi mezzi e grande impegno, prima con Kirwan, adesso con Eddie Jones. Hanno vinto  le ultime dieci partite, stanno preparando i Mondiali del 2019 che organizzeranno in casa  e con la mischia hanno messo in difficoltà tutte le avversarie, compresi gli All Blacks. Questo non vuol dire che noi dovevamo perdere e che la nostra brutta figura è giustificata. Ma non accetto che si dica <<avete perso perfino con i giapponesi…>>. Lo sport moderno non è più quello di un tempo: ai mondiali di calcio l’Italia e l’Inghilterra sono andate  fuori al primo turno, eliminate dal Costarica”.

Però con la mischia una volta eravamo noi a dominare, che è successo?

“Dominavamo quando eravamo al massimo e dal numero uno al numero otto erano quasi tutti titolari in Premiership e in Top 14, a Leicester, a Tolosa, a Gloucester, al Racing Metro. Qualcuno di quelli non gioca più, altri avevano tre o quattro anni in meno rispetto a oggi. Della mischia che nel 2013 ha vinto con la Francia, nell’ultima tournee, lo scorso giugno, nel XV titolare ce n’erano due (Ghiraldini e Geldenhuys, ndr). Non l’ha messo in evidenza nessuno, però…”.

Insomma ci dobbiamo rassegnare…

“Tutt’altro,  dobbiamo lavorare. Però dobbiamo sapere che non abbiamo un movimento capace di rimpiazzare in quattro e quatt’otto il 70% di un reparto. Mi viene da ridere quando sento criticare Parisse e Castrogiovanni… Invece da noi si mettono in discussione anche giocatori così. E’ assurdo. Purtroppo qui si preferiscono le chiacchiere, la propaganda, al lavoro. Si ironizza sugli asterischi al fianco dei nomi dei giocatori delle varie nazionali. Gli asterischi significano che su quei ragazzi qualcuno ha lavorato per anni, nelle accademie, nei centri di formazione. Sono un segno di speranza, significano che questi ragazzi hanno lasciato casa, le famiglie per impegnarsi in un percorso duro, faticoso che li possa rendere un po’ meglio di quello che sarebbero stati se fossero rimasti nei loro club, nelle loro città. Io posso dirlo perché nelle accademie ho passato degli anni. Ho visto quanto si lavora, con che fatica, con che passione. Ma qui invece di incoraggiare questi percorsi si critica tutto per partito preso, spesso senza sapere ciò di cui si parla. Posso dire una cosa?”

Prego

“Leggo sui giornali critiche e commenti sul lavoro delle accademie: sapete negli anni che ho trascorso a Tirrenia quanti giornalisti  sono venuti a vedere come lavoravamo, cosa facevamo?”

Quanti?

“Zero. E più facile dire che nelle accademie non si insegna a passare la palla che andare  a vedere come lo sì fa e con che mezzi”.

Però i risultati sono quello che sono.

“Certo, nello sport i risultati sono tutto e molte cose si possono fare meglio, ci mancherebbe altro. Ma il bello dello sport è proprio che non ci sono equazioni matematiche: in Francia si gioca il campionato più duro, più feroce, più impegnativo del mondo. Ci sono i migliori giocatori di tutti i continenti e in Nazionale la Francia chiama anche i Vahaamahina i Taofifénua, ragazzi di origini isolane che aggiungono prestanza e esuberanza fisica alla squadra. Bene, poi succede che i francesi vanno a giocare contro i Wallabies e perdono tre partite su tre, beccando in una 50 punti e in un’altra 40. Perchè?  Qual è la risposta? Forse, semplicemente, perché gli australiani sono più bravi, al di là dei numeri, dei quattrini, di questo e di quell’altro. Hanno uno spessore, una cultura, una qualità diversa. Tecnicamente non esistono più segreti, tutti si preparano più o meno allo stesso modo, e anche gli allenatori italiani sono preparati come gli altri, checché molti pensino. Ma le variabili sono infinite. I neozelandesi hanno vinto quattro mondiali di fila con gli U20. E a noi a chiedergli: <<che fate, come lavorate ?>>. Adesso non vincono più, neanche in casa loro. E in Nuova Zelanda si chiedono con chi andranno alla Coppa del Mondo del 2019. Gli allenatori neozelandesi, di colpo sono diventati così scarsi? Le loro accademie, così inutili?”

Proviamo a tirare qualche conclusione

“Le conclusioni sono che noi dobbiamo imparare a vincere le partite alla nostra portata. E’ l’unica cosa che conta. Nell’ultimo anno abbiamo perso due volte di un punto con la Scozia, abbiamo perso di cinque a Roma con l’Argentina e di  tre col Giappone a Tokyo. Almeno tre di queste partite, con più attenzione, più accuratezza, più cattiveria, avremmo potuto vincerle. E vi assicuro che vincere,  anche nell’analisi della stampa, avrebbe fatto una grande differenza. Con Samoa, per quanto le cose siano andate male, se avessimo messo a segno due calci, il primo tempo sarebbe finito 9-6 per loro invece che 9-0. Il che avrebbe reso la rimonta possibile e  magari il risultato finale diverso. E’ come se fossimo iscritti al Tour de France: tre o quattro corrono per la maglia gialla, cinquanta sognano di vincere una tappa, gli altri centocinquanta di arrivare in fondo. Noi oggi come oggi il Tour non lo possiamo vincere, non siamo Nibali, però dobbiamo essere capaci di approfittare della giornata giusta, aver voglia di entrare in tutte le fughe, provarci, e quando arriviamo in volata, cercare di cogliere l’occasione, vincere al fotofinish, invece di perdere di due punti. Un corridore che vince due tappe ha fatto un gran Tour. Quello è il nostro obiettivo”.

Cosa ci vuole?

“Attenzione ai dettagli, impegno e rabbia agonistica. Quella, lo ammetto forse ci manca e su quella dobbiamo lavorare di più. I gallesi sono andati in Sudafrica e la prima partita l’hanno persa male, subendo quasi quaranta punti. La seconda hanno giocato come se gli Springboks gli tenessero prigionieri i figli e le mogli ed è stata tutta un’altra storia (risultato finale 31-30, ndr). Noi a quell’atteggiamento ci dobbiamo ancora arrivare. Dobbiamo fare in modo che nessuno dia il proprio posto in squadra per scontato. Far sentire tutti sempre sotto pressione. Io mi documento, mi preparo, studio, perché questa è la mia vita. Professionismo, oltre alla passione,  significa che io col rugby mantengo la mia famiglia, i miei figli. Deve diventare così per tutti. Nello sport non ci sono rendite di posizione, men che meno nel rugby. Prima lo capiamo, meglio è per tutti”.  

 

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