All Blacks: la fine di un'Era
Il 9 settembre 2011, allo Stadio Eden Park di Auckland, iniziava un’Era. Sì, con la “e” maiuscola.
La Nuova Zelanda affrontò Tonga in una partita che avrebbe vinto per 41 a 10 - nel match inaugurale della Coppa del Mondo 2011 - per dare il via a quello che sarebbe stato un percorso memorabile.
Impreziosito dalla vittoria di due Coppe del Mondo consecutive, sei Rugby Championship, il record di 18 vittorie di fila (striscia iniziata il 20 settembre 2015 - con la vittoria al debutto nel Mondiale inglese, 26 a 16 contro l’Argentina - e terminata a Chicago il 6 novembre 2016 con la sconfitta per 40 a 29 contro l’Irlanda) e tanto altro.
Richie McCaw diventa il primo capitano a vincere due Mondiali (consecutivi), Dan Carter porta sempre più in alto il record di punti messi a segno nella storia del rugby, gli All Blacks che, oltre a vincere la Web Ellis Cup dopo un digiuno di 24 anni, balzano in testa al palmares per numero di titoli ecc...
Fino a quel momento la Nuova Zelanda era una nazionale criticata e attesa nei grandi eventi - soprattutto in patria; era una squadra che aveva sempre fallito i grandi appuntamenti in Coppa del Mondo (con solo la vittoria ottenuta nel 1987, nell’edizione casalinga, il secondo posto nel 1995 contro il Sudafrica di Mandela e Pienaar, le due medaglie di bronzo arrivate nel 1991 e nel 2003).
Dalla parte degli All Blacks c’erano solo i 10 titoli del Tri Nations e qualche primo posto nel ranking mondiale, tutto ha avuto una svolta durante quest’Era.
Un’Era che ha tracciato un solco profondo tra il prima e il dopo, sia per la storia della Nuova Zelanda, che per la storia del rugby.
Il 26 ottobre 2019, all’International Stadium di Yokohama, l’Inghilterra ha messo la parola fine a tutto questo.
La sconfitta in semifinale per 19 a 7, una Caporetto senza alcun diritto di replica per gli All Blacks, ha chiuso un’Era memorabile, un’Era che porterà via con sé giocatori straordinari, azioni mostruose, partite che resteranno scolpite nella roccia e tanti piccoli semi per il futuro.
Semi che dovranno essere raccolti e sapientemente coltivati, vedremo che pagine scriveranno le leve più giovani come Rieko Ioane, Jack Goodhue, lo stesso Ardie Savea e quanto, la Nuova Zelanda, diventerà la nazionale dei fratelli Barrett.
Questo brusco risveglio - un risveglio arrivato per ricordare al mondo che, sì, anche gli All Blacks sono umani come noi e, in quanto tali, fallibili - non ha impedito loro di vivere un’ultima danza tutti insieme.
La finale per il terzo posto contro il Galles, infatti, ha permesso a tanti ragazzi di salutare quello che è stato il loro sogno, per molti vincente, per altri meno, un sogno coltivato fin da bambini e che è stato realizzato con tutti gli onori del caso.
Chissà cosa ha pensato il capitano Kieran Read - che in questa edizione giapponese, insieme ad alcuni compagni, ha perso l’occasione di diventare il giocatore con più titoli
Mondiali della storia (3) - mentre dirigeva l’ultima Haka della sua carriera, quale spirito ha animato Steve Hansen - insieme al suo collaboratore per gli avanti Mike Cron, anche lui a fine percorso - mentre impartiva le ultime direttive o quanto sia stato intenso il sorriso arrivato sul volto di Sonny Bill Williams - un altro ai saluti finali - dopo aver servito a Ryan Crotty uno dei suoi assist da portare a meta (proprio a Crotty, che in maglia nera, ha trovato poche soddisfazioni e che si congeda con cinque punti nel tabellino).
Chissà quanti bambini sono stati ispirati dalla gioia contagiosa di Ben Smith che, dopo aver vinto tutto e aver segnato la prima meta di giornata contro il Galles, ci ha preso gusto e ha portato a casa anche la seconda (vedendosi annullare la terza).
Gli addii non sono mai belli, lasciano sempre quel velo di malinconia anche quando si è vissuto qualcosa di importante, ma il Dio del rugby è stato ingeneroso con Matt Todd (che lascia la maglia nera prima di poter giocare la semifinale contro l’Inghilterra). La partita con il Galles, però, una partita che chiude un ciclo e ne apre un altro, è anche il match dopo il quale inizierà un periodo sabatico per diversi giocatori.
Come accadrà per Brodie Retallick (che proverà a sistemare definitivamente i guai fisici per tornare a disposizione tra due anni) o per Dane Coles (che non ha fatto ancora chiarezza sul proprio futuro).
In questo modo si proverà a puntare sui giovani e ad integrarli con le colonne della squadra non appena torneranno a disposizione.
Provando a non perdere talenti sulla strada, per colpe varie naturalmente, un po’ come è successo con Julian Savea o altri.
Chissà, poi, quali strade percorrerà Owen Franks - che andrà a giocare all’estero e quindi, probabilmente, non sarà più convocato.
Insomma, quest’Era ha regalato tanto a diversi giocatori e ha portato una piccola gioia a molti altri.
È il caso, ad esempio, di Piri Weepu, che nel 2011 è riuscito a portare a casa una Coppa del Mondo prima del ritiro (proprio mentre rischiava di finire nel gruppo dei grandi che non hanno mai vinto la partita più importante anche se hanno lasciato un segno indelebile. Ne cito quattro su tutti: Doug Howlett, Jonah Lomu, Joe Rokocoko e Tana Umaga).
È stata l’Era delle belle storie di riscatto, anche per chi l’ha vissuta marginalmente, come è accaduto - sempre nel 2011 - ad Aaron Cruden che, dopo aver sconfitto un cancro al testicolo, nonostante non fosse stato incluso nella lista dei convocati al Mondiale, con l’infortunio di Dan Carter è entrato nel gruppo e ha vinto anche lui la Web Ellis Cup.
Questa è stata una bellissima Era di storie e di risultati sportivi, un’Era che rende anche chi l’ha vissuta da lontano testimone di fatti importanti.
Avvenimenti che porteremo con noi sempre, anche se ne verranno di nuovi. D’altronde, nei giorni in cui, tra gli altri, Richie McCaw entra nella Hall of fame, il passaggio tra passato, presente e futuro, appare sempre più chiaro e visibile a chi guarda con interesse la storia di questo sport.
di Simone Ciancotti Petrucci
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