Da Lanfranchi a Romano, storie di Azzurri nella Resistenza
Di Elvis Lucchese
Negli anni Trenta il rugby ha goduto dell'attenzione e del sostegno del regime, venendo propagandato come uno degli "sport fascisti" per eccellenza. Una disciplina di contatto, che richiede spirito di corpo, resistenza e coraggio: per le sue caratteristiche intrinseche la palla ovale coincide con l’ideologia militarista del momento. Nell’ambito di un ampio intervento del regime a favore della pratica atletica, si individua nel rugby «sport di combattimento» un ideale strumento per la preparazione - sia fisica che psicologica - del giovane soldato. Nel tempo l’etichetta fascista ha poi finito per rimanere appiccicata alla palla ovale al di là della dimensione reale dei legami fra atleti, organizzatori e gerarchi fra le due guerre.
Ma il microcosmo rugbistico, come un campione della vicenda storica del paese, ha conosciuto in filigrana anche una componente di giovani impegnati nella Resistenza, le cui storie sono finora poco note. E fra questi sei sono i nomi legati alla maglia della Nazionale. Italiani di provenienza, estrazione sociale e motivazioni diverse, accomunati da una scelta di libertà.
Sergio “Braccio” Lanfranchi
Non si può che cominciare da Sergio “Braccio” Lanfranchi, uno dei rugbisti che più hanno segnato il proprio tempo. Il terza linea di Parma (ma poteva giocare in tutti i ruoli del pacchetto) esordì con l’Italia ventiquattrenne nel ’49 e chiuse la sua carriera azzurra 15 anni più tardi. In mezzo l’affermazione nel campionato francese con la maglia del Grenoble, primo italiano a vincere uno scudetto così prestigioso. Dell’umile quartiere di Borgo del Naviglio, perduta la madre Lanfranchi cresce in orfanotrofio e conosce il rugby nelle file della Gioventù del Littorio. Dopo l'avvento della Repubblica Sociale è inserito nella divisione alpina Monterosa e inviato in Germania per l'addestramento nel campo di Munzingen, in condizioni durissime. Al rientro in Italia si unisce alla Resistenza piemontese, con il nome di battaglia "Dik", e combatte per la Liberazione prima nella Settima Divisione Garibaldi e quindi nella Italo Rossi.
Vittorio Borsetto
Ad avere una breve esperienza francese è stato anche il rodigino Vittorio Borsetto, terza linea e pilone, il quale sulla scia di Maci Battaglini approdò al Vienne per due stagioni. Operaio, due caps in azzurro nel 1948, era stato chiamato in guerra come caporale di Artiglieria. Dopo l’armistizio si era unito alla 56esima brigata Garibaldi in Valcalepio, nel bergamasco, combattendo in clandestinità per quasi due anni.
Aldo Battaggion
Nelle stesse due partite del ’48 alla ripresa dopo la guerra, contro Francia B e Cecoslovacchia, nel XV azzurro con Borsetto c’è anche il bergamasco dell’Amatori Aldo Battaggion, mediano di mischia. A differenza di Lanfranchi e Borsetto, di modeste origini, Battaggion è figlio di un importante industriale e riceve la migliore educazione, studiando prima da geometra e quindi Economia e commercio. Proprio all’università a Milano fa conoscenza con la palla ovale, unendosi alla squadra di ateneo del Guf. Allievo ufficiale pilota dell’Aeronautica, partecipa alla guerra, quindi dopo l’8 settembre si unisce alle bande partigiane della Val Serina. La famiglia è di idee liberali e già a Milano si era avvicinato alla rete di “Giustizia e Libertà”. Nella notte del 15 gennaio ’44 è catturato dalla Guardia Repubblicana e rinchiuso nel carcere di Sant’Agata a Bergamo. Mentre i suoi compagni vengono liberati con l’obbligo di prestare servizio nelle truppe della Rsi, Battaggion è trattenuto insieme a Dante Paci. Sono ritenuti capi del gruppo. Paci viene fucilato il 21 luglio. Battaggion resiste alle torture, quindi il 9 ottobre viene inviato a Dachau. Malato e deperito, rimane miracolosamente in vita fino all’arrivo degli americani, il 29 aprile ’45.
Ha detto Aldo Battaggion: «Al rugby devo la vita. Da Dachau sono tornato vivo perché ero un giocatore di rugby. Come mentalità, come acutezza sportiva il rugby aiuta a dare resistenza all’individuo: per cui ho resistito alle botte prima dei fascisti, poi dei nazisti e poi ho resistito a Dachau. Il giocatore di rugby è un coraggioso. L’abilità di un mediano di mischia deve essere quella della visione del gioco. La visione del gioco insegna a guardarsi attorno, a ponderare, a vedere, e questo mi ha aiutato molto. Mi ha salvato la vita».
Enrico Allevi
Fra coloro che avevano giocato in Nazionale prima della guerra, Enrico Allevi figura addirittura nel XV azzurro d’esordio a Barcellona nel 1929. Il milanese ha già ventisette anni e infatti quattro stagioni più tardi lascerà l’Amatori e il rugby. Si iscrive al Partito Comunista clandestino e con il nome di battaglia di “Orazio” partecipa alla guerra di liberazione. Muore il 3 maggio 1945 per malattia ed è sepolto nel “Campo della Gloria” del cimitero maggiore di Milano.
Il bolognese Fernando Trebbi, classe 1909, meccanico, gioca due volte con la Nazionale nel ’33, entrambe contro la Cecoslovacchia. Istruito come Radiotelegrafista, ha la fortuna di non essere chiamato alle armi. Nell’ottobre ’43 si impegna alla Resistenza e diviene membro del Cumer, il comando militare dell’Emilia Romagna.
Piero Romano
Piero Romano gioca invece l’ultima partita degli azzurri prima dell’interruzione per la guerra. Con il gemello Guido (che morirà un anno più tardi) compone la coppia di piloni che sfida la Romania il 2 maggio 1942. Ottiene il rinvio militare in quanto studente della facoltà di Agraria. Dopo l’armistizio prende la via della Valtellina e lì con il nome di “Cleto” diviene comandante del distaccamento Fagognolo della 55esima Brigata Fratelli Rosselli. I rastrellamenti dell’ottobre ’44 lo obbligano ad una solitaria fuga fino alla Svizzera, dove conosce l’internamento. Torna in Italia nella primavera seguente e partecipa all’insurrezione di Lecco. E’ uno dei protagonisti dello scudetto dell’Amatori nel primo campionato in tempo di pace, nel 1946.
Di Elvis Lucchese