Conor O’Shea: “vincere insegna a vincere”
Prima di proporci per intervistare in esclusiva Conor O’Shea abbiamo riflettuto a fondo. Sapevamo di aver davanti non solo un professionista di alto livello del coaching, ma anche una persona molto preparata nel campo della comunicazione, che misura le parole ed è molto abile nel mantenere riservate le dinamiche interne della “sua” squadra. Nelle interviste pubbliche, O’Shea ha sempre riproposto i concetti di base della sua filosofia rugbistica, temevamo quindi che questa intervista potesse rivelarsi una lista di frasi già sentite. Abbiamo cercato allora di andare dritti al punto di alcune questioni molto dibattute tra tifosi e addetti ai lavori: le scelte tecniche, il nocciolo duro di giocatori insostituibili, la questione mentale di una Nazionale maggiore “assuefatta” alle sconfitte, una difesa che non ha ancora un equilibrio. Com’è andata? Beh, soppesando ogni sua parola come di consueto, O’Shea si è sbilanciato più del solito e lo ha fatto in direzione dell’ottimismo, fornendoci alcuni dettagli interessanti del “dietro le quinte” del lavoro suo e del suo staff, quelli che hanno portato i buoni risultati di Benetton, Zebre e nazionali giovanili di questa stagione.
Ciao Conor e grazie di aver accettato le domande di Rugbymeet. Il passaggio generazionale nella Nazionale maggiore è stato molto forte: la consideri una scelta obbligata oppure hai scelto di investire da subito sul futuro?
Abbiamo la responsabilità di garantire il futuro del rugby italiano, di riportare l’Italia ad essere una grande Nazione di rugby. E abbiamo una nuova generazione di atleti molto interessante ed un sistema che oggi è in grado di alimentare con continuità il gruppo che stiamo costruendo. Se pensate ai test di novembre, avevamo moltissimi atleti alle loro prime esperienze internazionali: pensate all’esperienza che hanno accumulato tra novembre ed il Torneo, ma anche a quanto tutto il sistema si stia sviluppando. Penso all’Italia U20, all’U18, all’U17 che hanno ottenuto tutte alcuni eccellenti risultati.
Cosa hai trovato nel rugby italiano di diverso rispetto alle tue aspettative iniziali?
Posso dire che sono molto più entusiasta adesso, dopo due anni, di quando sono arrivato. Stiamo lavorando duro, con tutte le componenti del movimento. Come ho detto a novembre, la luce in fondo al tunnel non è più il faro di un treno. Questo tour è una grande opportunità per la squadra di continuare ad imparare e a crescere in vista dei Mondiali dell’anno prossimo in Giappone, ma vogliamo anche sviluppare una giusta pressione all’interno del gruppo per trasformare in risultati le nostre prestazioni.
La Nazionale è decisamente migliorata in attacco, ma non ha ancora trovato un equilibrio difensivo: cosa serve per trovarlo?
Abbiamo detto di voler prendere qualche rischio per voler sviluppare il nostro gioco offensivo e questo in qualche modo ci espone dal punto di vista difensivo, basta pensare alle mete di intercetto concesse che non hanno nulla a che vedere con l’impianto difensivo. Conosco bene il lavoro che ha fatto Marius (Goosen, ndr) dandoci un sistema difensivo e costruendo su un impianto che tutti conosciamo e che vogliamo portare al livello successivo: questo può avvenire diventando maggiormente aggressivi in tutto ciò che facciamo e assicurandoci di continuare ad innalzare i nostri livelli di fitness per essere sicuri di avere quell’intensità che vogliamo. Guardando le statistiche difensive forniteci da OPTA non sono molto diverse dalle altre squadre del 6 Nazioni, ma quando facciamo degli errori li paghiamo cari. Vogliamo essere migliori in attacco, in difesa e nei lanci di gioco e lo saremo."
Nelle ultime interviste del 6 Nazioni Sergio Parisse ha parlato per la prima volta di un "problema mentale": è quella la chiave? Come state lavorando in questo senso?
Sergio non ha torto, nello sport di alto livello una grande parte del gioco è mentale. Quando hai fiducia, quando una squadra ha fiducia, cambia il modo in cui si viene percepiti dagli arbitri, dagli avversari che preparano una partita.
Non è un mistero: vincere insegna a vincere. Penso che la stagione della Benetton, ma anche per vari aspetti quella delle Zebre, abbiamo dimostrato una volta di più questo principio. Detto questo, inserire nel nostro gruppo di lavoro tutte quelle professionalità necessarie a sviluppare la performance dei giocatori fanno parte del nostro progetto e, da circa un anno, lavoriamo con Discovery Insights sotto questo punto di vista, con assessment e profilazione dei giocatori per aiutarli a comprendere i propri punti di forza, di debolezza e come lavorare al meglio all’interno del gruppo.
Benetton e Zebre hanno giocato un'ottima stagione: qual è la il fattore più importante che è cambiato nella loro preparazione?
Non un solo fattore, ma molti. Treviso aveva già una strada chiara tracciata da Antonio Pavanello, Kieran Crowley e tutto lo staff tecnico; le Zebre con l’arrivo di Andrea Dalledonne, Mike Bradley, Carlo Orlandi, Alessandro Troncon hanno trovato stabilità come Club e questo si è tradotto in una maggiore fiducia sul campo. Pete Atkinson e Giovanni Sanguin hanno un confronto e una presenza quasi quotidiana al fianco dei preparatori delle due franchigie, c’è una maggiore sinergia generale.
Se tu avessi la possibilità di cambiare una sola cosa del sistema del rugby italiano... cosa cambieresti?
Possiamo cambiare le cose che controlliamo, e tra le cose che controlliamo stiamo apportando molti cambiamenti da un anno a questa parte. Penso alla riforma del sistema di formazione degli allenatori, al riallineamento del percorso dei giocatori di alto livello e di base. Steve Aboud e Daniele Pacini lavorano in grande sinergia, ed i risultati dell’Italia U20, dell’Italia U18 e dell’Italia U17 sono davvero interessanti. E’ un momento emozionante per il rugby italiano, ci sono davvero tanti giovani che stanno crescendo e potranno presto entrare a far parte del sistema delle due franchigie.
Foto Alfio Guarise