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Agustin Pichot si è fatto paladino di una rivoluzione nel rugby che conta. Lo abbiamo intervistato per conoscere direttamente da lui la filosofia e le motivazioni che stanno dietro alla voglia di cambiamento.

Articolo pubblicato su Allrugby di giugno 2019, numero 137

È un periodo caldo per il mondo del rugby, diviso tra interessi economici (l’ingresso nel mondo ovale dei fondi di investimento) e idee rivoluzionarie. Da una parte la Federazione internazionale (World Rugby) spinge per creare un Nations Championship sul modello di quello del calcio, dall’altra i fondi privati ingolosiscono le singole federazioni (o tornei privati come il Sei Nazioni) con offerte a tanti zeri. Ne abbiamo parlato con Agustin Pichot, numero due di World Rugby nonché mediano di mischia dell’Argentina che conquistò un fantastico terzo posto al mondiale francese del 2007. La sensazione, al telefono attraverso diversi fusi orari, è che i detrattori gli potranno sempre rinfacciare i suoi molteplici (troppi?) interessi: dalla comunicazione (è ben introdotto in Espn), al posto nel board di Usa Rugby, la Federazione ovale a stelle e strisce, fino al ruolo di facilitatore per gli investimenti stranieri nelle materie prime in Argentina (è amministratore delegato di un’impresa australiana). Dall’altra, però, con il suo fare disinvolto, molto “argentino”, potrebbe passare alla storia come paladino di un rugby che non ha accesso alle stanze dei bottoni. E se chi legge si indigna degli scandali delle nazionali isolane, costrette l’autunno scorso a pagarsi i voli aerei per i test match, la sua idea di “rimettere al centro della questione il gioco e non il ritorno economico” dovrebbe ottenere, sulla carta, un appoggio incondizionato.

Agustin, il principio per cui nasce l’idea di un Nations Championship è l’attuale sistema economico, che hai sempre definito poco efficiente. Perché?
È un sistema prima di tutto costoso che rende molto difficile per alcune federazioni trattenere in patria i propri giocatori. Il calendario poi non permette ad alcune squadre di competere regolarmente con le altre, quindi di migliorare e rendere più interessante il gioco. È un sistema poco inclusivo.

La soluzione, soprattutto l’idea di introdurre la retrocessione nei grandi tornei, come il Sei Nazioni, non sembra piacere molto. Gli inglesi hanno detto addirittura che sarebbero costretti a vendere Twickenham in caso l’Inghilterra dovesse retrocedere, i giocatori hanno paura di viaggiare troppo e di non essere tutelati. Solo il sud del mondo è a favore di questa rivoluzione. Steve Tew, numero 1 della NZRU ha dichiarato “a great idea comes with complications” - una grande idea comporta sempre complicazioni.
Per me quelli che sono contro non sono tanto gli inglesi ma Irlanda, Scozia, la stessa Italia che poi io paragono all’Argentina. Anche per noi, questa nuova configurazione potrebbe essere rischiosa, perché siamo sempre ultimi nel Rugby Championship. Però, dall’altra parte, vincendo lo spareggio si può sempre rimanere nei 12, e le garanzie di giocare con le grandi squadre rimarrebbero intatte, come gli incassi. È un’opportunità.

Hai sempre detto che questa riforma va verso il gioco, non al denaro.
Penso si debba tornare a mettere il gioco al centro. Il rugby deve crescere.

Avete un’idea del feedback dei tifosi?
Non conosco nessuno a cui questo progetto non piace. Solo così le nazioni del Tier 2 e 3 possono, nel giro di dieci anni, migliorare. Pensate all’Italia e all’Argentina nell’attuale situazione: voi siete nel Sei Nazioni dal 2000, noi nel Championship dal 2012. In diciannove anni voi, e in sette anni noi, non abbiamo fatto troppi passi in avanti. E intanto Spagna, Georgia, Romania, le squadre isolane non hanno alcuna possibilità di inserirsi e giocare con le migliori otto del mondo. Se continuiamo con l’attuale sistema cosa possiamo dire alle altre squadre: per i prossimi dieci anni continuiamo così? Possiamo anche cambiare alcuni termini della questione ma ritengo che la possibilità di essere promossi e retrocedere vada inserita per forza.

La riforma sembra essere una risposta a quei fondi di investimento, come CVC, che stanno mettendo gli occhi e i soldi su un po’ tutto il rugby che conta. Da una parte parli di gioco ma in passato ti è capitato di dare il benvenuto a queste società finanziarie: a proposito della Premiership dicesti “il rugby ha bisogno dei loro investimenti per fare un salto di qualità verso il professionismo”. Qual è la tua posizione in merito?
Non sono molto favorevole, in linea di principio. Anche perché il rugby non ne ha bisogno, se parliamo di Federazioni e tornei tra nazioni. A livello di club capisco possano essere utili per portare nuove risorse. Ma a livello di Nazionali come si può valutare e quindi acquisire il valore o una percentuale del XV dell’Argentina o della Scozia? Questa è la mia posizione. Per me è una “locura”.

Per il Sei Nazioni si parla della cessione di un 30% di quote del Torneo, o addirittura - circola questa voce - di CVC come settimo socio paritario.
Per me è molto pericoloso. Non conosco i dettagli ma perché un torneo così importante come il Sei Nazioni dovrebbe accettare questa offerta? È solo per spartirsi il denaro.

A livello di campionati pensi ci saranno stravolgimenti?
No, rimarrà tutto uguale. Sarà come nel calcio, in cui le partite internazionali si inseriscono nel calendario e si alternano ai campionati. È tutto compatibile.

 

Prossimamente la seconda parte dell’interessante intervista a Agustin Pichot, l’ex mediano di mischia dell’Argentina ci parlerà di Eleggibilità, di Rugby femminile e Doping (leggi qui).

 

 

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