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Per la serie: mai rimanere in superficie, mai arrendersi all’evidenza: “Il terremoto? O ti insegna e ti spinge a sollevare la testa e a guardare avanti, o ti uccide”. Vincenzo Troiani, aquilano, in forza alla Digos, allenatore per (autentico e appassionato) diletto. Uno dei tanti che da L’Aquila sono partiti e che sono tornati a casa dopo un buon numero di anni trascorso a girovagare per l’Italia ovale.  “L’esperienza che, fra le tante, considero quella decisiva per la mie scelte di vita attuali? I due anni alle Zebre (ultimo anno con Gajan capo allenatore, primo con Andrea Cavinato, ndr). Una stagione a zero vittorie e quella successiva a 6! Il rispetto degli avversari te lo devi conquistare, quell’anno ci riuscimmo”.

ï         Esperienza decisiva In che senso?
-          Nel senso che quelle due stagioni mi hanno aperto gli occhi, mi hanno chiarito dubbi, precisato i contorni di problemi che riuscivo solo a cogliere in maniera sommaria. Finalmente ho capito!

ï         Cosa?
-          Che il rugby è un gioco che, prima di ogni altra cosa, ha bisogno di essere giocato ad alta intensità.

ï         Per risultare vincente?
-          Per piacere a quelli che vengono a vederlo! Il rugby è di chi decide, in piena libertà, di diventarne fruitore consapevole. E che quando viene allo stadio domanda, prima di tutto, di trascorrere del tempo gustando qualcosa che gli piace. Se dal campo ottiene qualcosa che lo metta nelle condizioni di volerci ritornare… si mette in moto un meccanismo che, alla fine, diventerà qualità, e la gente tornerà a vederti giocare.

ï         È quello che avete fatto a L’Aquila?
-          Ci stiamo provando. L’Aquila è una città praticamente desertificata, il centro storico, quando sarà completata la ricostruzione, sarà un gioiello. A momento è niente. La maggior parte degli abitanti trascorre il fine settimana fuori. I nuovi centri di aggregazione sono i centri commerciali. Però a L’Aquila  c’è una squadra di rugby, e sarebbe bello che qualcuno la seguisse… L’Aquila, per anni è stata “il rugby”, poi qualcosa si è rotto, qualche meccanismo si è inceppato, ben prima del terremoto. Noi ci siamo posti come obiettivo proprio questo: far pace con la città!

ï         Scelta libera o in qualche maniera una scelta obbligata?
-          Inutile negare l’evidenza. Risorse economiche al lumicino, budget sempre più ristretti, sponsor… ma chi è quel matto che, oggi, avendo intenzione di promuovere un marchio lo fa attraverso il rugby di club, in Italia! Gli sponsor ce l’ha la Fir, ed è giusto, naturale che sia così. La visibilità è il Sei Nazioni, i test match con le potenze del pianeta, mica la poule promozione della serie A…

ï         E quindi?
-          Come primo atto formale abbiamo pensato a sfoltire la rosa. Via tutti, o quasi. Chi è rimasto lo ha fatto sapendo che non avrebbe ottenuto ingaggi ma solo rimborsi spese…

ï         Bassi anche quelli?
-          Il meglio pagato da noi prende 650 euro al mese, la media è 250. La nostra apertura (Filippo Di Marco, ndr) gioca per 250 euro al mese, frequenta come il 90% dei nostri giocatori l’università e, soprattutto, sa che anche se decidesse di andarsene, non troverebbe di molto meglio in giro…

ï         Sicuro?
-          Certissimo. Le sirene sono sparite, fra un contratto da 1000 - 1200 euro al nord e uno qui da noi molto inferiore ma con la prospettiva di giocare nella propria città e di costruirsi una posizione lavorativa dignitosa e sicura…

ï         L’Aquila agli aquilani? Cuore neroverde sopra ogni cosa?
-          Il campanile non c’entra! Non siamo così limitati. Quella che io chiamo “aquilanità” non è e non vuole essere un fatto di appartenenza etnica. Uno dei simboli di questa squadra che ha un’età media sotto i 23 anni, è un pilone di Pordenone (Iacopo Schiavon, ndr), che di abruzzese non ha niente, ma che crede nel nostro progetto e lo dimostra ogni domenica segnalandosi per l’impeto e l’aggressività che mette sul campo. Aquilano, in verità è lo staff.

ï         Composto, oltre che da Vincenzo Troiani?
-          Da Pier Paolo Rotilio che con me condivide la responsabilità della conduzione tecnica del gruppo, da Maurizio Zaffiri che cura la preparazione fisica in palestra e da Concetta Milanese, la vedova del grande Isaia Di Cesare, che lavora la parte atletica.

ï         Oltre al gioco di movimento ad alta intensità, qual è l’altra arma a disposizione, se c’è?
-          C’è, e si chiama settore giovanile. I giocatori del futuro vanno costruiti in casa. L’ha fatto il Petrarca ed è riuscito a superare anni di appannamento. Dobbiamo provarci anche noi, dovrebbero provarci tutti! Il nostro Minirugby conta 40 tesserati per ognuna  delle 4 categorie, la società che se ne occupa si chiama Rugby Esperience school, esiste da tre anni, diamo tutti una mano, ci crediamo.

ï         Ma che rugby si gioca in serie A?
-          24 squadre, 24 allenatori e 24 modi di pensare e di vedere il gioco. Noi abbiamo scelto di uscire dal modello “Rimessa, drive, mischia ordinata, calcio piazzato”. Qualcuno ha fatto come noi, altri ci stanno provano, e poi c’è chi non ci pensa proprio. Liberissimi, tutti, di fare come ritengono sia più giusto sensato fare. A me piace sottolineare che L’Aquila ci sta provando.

ï         Senza puntare all’Eccellenza?
-          Non siamo attrezzati per l’Eccellenza, ci mancano chili davanti e quantità industriali di esperienza. Domenica andiamo a Recco, se vinciamo attenderemo all’ultima giornata l’Accademia Fir al Fattori. Potremmo anche andare in semifinale.

ï         E poi?
-          E poi proveremo a vincerla, che domande! Chi lo dice ai ragazzi che devono frenare sul più bello? Io no! E anche se lo facessi sono sicuro che non mi seguirebbero. È che vincere a Recco sarà durissima: campo stretto, mischia pesante e organizzata, ottima apertura. Sarà un inferno. Ma l’inferno non ci spaventa, abbiamo visto di peggio.

 

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Foto L'Aquila Rugby Club