x

x

Una volta era 40. Da una ventina d’anni, salvo qualche stagione di ripensamento, è invece 42. Non si tratta della risposta alla domanda fondamentale sull’universo e sul tutto, come avrebbero potuto dedurre i cultori della “Guida galattica per autostoppisti”. Ma proprio come nella geniale saga “sci-fi” di Douglas Adams (talmente “avanti” da aver ispirato l’idea che è alla base di Wikipedia) quel numero, 42 appunto, che in realtà è un limite, lascia disorientate e perplesse le moltitudini di teste ovali intente a sbrigare le loro faccende più o meno eroiche in giro per i campi da rugby di tutto il mondo. Beh, ecco, quasi tutto.

In Italia, caso più unico che raro, questa cifra-limite al massimo può fare arrabbiare, sommessamente sacramentare o sorridere. Poi, come sempre, tocca adeguarsi e rassegnarsi all’inevitabile “fine della festa”.

E’ risaputo che nel Belpaese si possa giocare a rugby fino a 42 anni. Poi basta, anche se il fisico del “vecchio” di turno è in perfetta salute.

Non chiedetemi perché, vi prego. Immagino per ragioni di sicurezza e salute, conseguenti a procedure di controllo medico e sanitario per ottenere la certificazione di idoneità alla pratica sportiva dagli standard particolarmente elevati (circostanza che fa onore all’Italia, sia ben chiaro, evitando inutili rischi e terribili drammi ad atleti, famiglie e società sportive). Un conto però è accertare che il giocatore di rugby, la “macchina” chiamata a sopportare sforzi intensi e particolarmente logoranti, sia in condizioni accettabili per scendere in campo. Un altro decidere a priori che, idoneo o no, a 42 anni si debba per forza chiudere con l’attività agonistica.

Il disorientamento di cui parlavo qui sopra - citando la Guida galattica e quella risposta tanto strampalata quanto corretta - lo ricordo bene stampato negli occhi e nella bocca spalancata di alcuni amici anglosassoni, anni fa, quando gli spiegai come funzionano le cose nel rugby di casa nostra. “What? Why?” e via così, sempre più stupiti. Eh, spiegaglielo tu, che le cose da noi stanno così, a un popolo che oltre ad aver inventato il rugby permette a chiunque se la senta, a suo rischio e pericolo (sia ben chiaro) di scendere in campo anche oltre i 70 anni. Non nei tornei Old. Nei normali campionati regionali e nazionali. Qualche esempio? Uno su tutti: JPR Williams (classe 1949), mito del Galles e dei Lions anni ’70, che accompagnato dai suoi celeberrimi basettoni ha calcato le scene fino al 2003, chiudendo la sua lunghissima carriera agonistica nel Tandu (piccolo club che rifornisce gli Ospreys) all’età di 54 anni. Williams oltretutto era un medico, quindi presumiamo conoscesse bene il suo stato di forma e i rischi a cui andava incontro. Pochi, evidentemente, per convincersi ad appendere le scarpette. Qualche anno fa invece suscitò scalpore sui media sportivi di tutto il mondo – anche italiani - la storia di un pilone inglese, John Goldman (foto), che a 70 anni suonati giocava ancora nei campionati minori con la maglia del Mill Hill Rfc, club della zona nord di Londra, insieme a ventenni che potevano tranquillamente essere suoi nipoti.

Che si tratti di casi estremi non c’è dubbio. Ma è altrettanto fuor di dubbio che dover smettere a 42 anni perché lo stabilisce il Coni sia un’imposizione ridicola e priva di basi medico-scientifiche se non quelle della “precauzione ad ogni costo”, ovvero con il paraocchi.

Comunque sia, quasi ogni stagione qualche irriducibile arriva alla fatidica soglia. A memoria – e scusandomi per le innumerevoli omissioni - ricordo l’aquilano Serafino Ghizzoni, ala-estremo dei primi Mondiali in Nuova Zelanda, scudettato a 40 anni e ritiratosi due anni dopo, nel 1996, dopo 24 stagioni in massima serie con i neroverdi abruzzesi. Sempre a 42 anni e nel massimo campionato italiano, nel 2000, ha invece dovuto smettere i pantaloncini corti Paolo Vigolo, pilone del Petrarca degli scudetti dell’era Munari. In tempi più recenti è toccato ad altri tre “pilonazzi” vecchio stampo, dal cuore inesauribile, come Mauro Vaghi (con l’Amatori Milano, ex di Milan e Calvisano) nel 2011, Michele “Pape” Matteralia (con il Roccia Rubano, ex di Cus Padova e Petrarca) nel 2013 e Alessandro “Naas” Tellarini (con l’Amatori Badia, ex del Rovigo) nel 2015, tutti in Serie A. Quella appena conclusa invece è stata l’ultima stagione per altri quattro irriducibili, che hanno concluso la loro corsa ovale in Serie B. Il tallonatore Fabio “Hogan” Berzieri, colonna del Piacenza Rugby, il mediano di mischia Lisandro “Lichi” Villagra, giocatore-allenatore dell’Amatori Capoterra, il mediano d’apertura Sebastian Damiani, giocatore-allenatore del Lecco, ed Eros Caeran, pilone del Paese che ha avuto l’onore e la soddisfazione di chiudere con una promozione in Serie A.

Li abbiamo sentiti per voi, per capire cosa prova un povero rugbista di appena 42 anni di fronte a questa “data di scadenza”, per non dire sentenza definitiva, che esiste solo in Italia.

A domani per le loro interviste. Continua…