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Il rugby è un patrimonio collettivo che trasmette valori, regole, tradizione – dice un uomo di televisione come Giovanni Bruno -, ma anche il rugby deve sapersi innovare. Lo ha sempre fatto e dovrà continuare a farlo, anche in futuro.

Articolo pubblicato su Allrugby di giugno 2019, numero 137

di Valerio Vecchiarelli

 

Nelle caleidoscopiche passioni professionali di Giovanni Bruno il rugby un posto lo ha sempre avuto e non solo perché, prima di diventare uno dei signori del giornalismo televisivo italiano, lui con mischie e fango ci faceva i conti davvero. Giocatore del Cus Roma a cavallo degli anni ’70-’80, le atmosfere di terzi tempo e il profumo della canfora degli spogliatoi fanno parte del suo vissuto.

In un momento di rivoluzioni tecniche, in cui tutto sembra per nulla cambiare al vertice delle gerarchie da ranking mondiale, l’occhio di chi il rugby lo deve guardare come prodotto da confezionare e vendere agli abbonati offre uno sguardo diverso, sicuramente lucido e non inquinato dalla romantica passione di chi ancora rimane aggrappato con i sentimenti a un gioco che non c’è più, quello del volontariato, dei dilettanti allo sbaraglio, delle amicizie che durano una vita e della vita che va avanti al fianco di chi ha condiviso con te quella terribile malattia ovale.

Giovanni Bruno, vale ancora la pena per un’azienda come può essere Sky investire su un prodotto in continuo cambiamento in un Paese in cui la Nazionale si presenta come una inguaribile perdente, senza grandi prospettive di fare ascolti?

La risposta è immediata, senza troppe riflessioni e giri di parole: «Vale la pena sempre! Il rugby è un patrimonio collettivo, è un bene da vedere e proporre, deve essere trasmesso perché trasmette valori, regole, tradizione e innovazione insieme. E poi la supertecnologia che ha proposto prima di ogni altro sport per chi fa televisione è un tesoro da valorizzare e custodire con cura. Rispetto ad altre discipline, alcune delle quali fanno parte del mio bagaglio culturale, il rugby ha saputo fare un passo in più, si è saputo rinnovare per rendere irrinunciabile ai suoi acquirenti il prodotto».

Eppure gli ascolti non sono quelli da far saltare sulla sedia qualsiasi direttore di rete, la polverizzazione dell’offerta è così costante che si ha pure difficoltà a orientarsi tra streaming, buffer, abbonamenti continui e canali in alta definizione: «Il mondo è questo e in questo lo spettatore imparerà sempre con maggiore abilità a muoversi, ma se noi con Sky stiamo con molta attenzione trattando per prendere i diritti del Mondiale giapponese un motivo ci sarà. Non siamo visionari, o inguaribili nostalgici, oggi ci si muove in un panorama in cui la crisi finanziaria e quella delle risorse a disposizione limita molto gli azzardi, ma i Mondiali di rugby del 2007 su Sky, il Sei Nazioni, le Olimpiadi di Vancouver e quelle di Londra restano alcune tra le mie più grandi soddisfazioni professionali. E il rugby tra i grandi eventi resta uno di quelli cui è sempre giusto dedicare un occhio di riguardo».

Forse può essere giusto nei grandi Paesi ovali per eccellenza, in Italia sembra un discorso molto romantico e poco pratico: «Non è vero, è molto pragmatico, la Nazionale perde? Magari perdi un po’ di tifo, di affezione, di voglia di sederti un pomeriggio di fronte al televisore per coltivare un amore. Che, sappiamo benissimo, in un Paese in cui molte passioni popolari sbocciano insieme con i risultati è la prassi. Ma con il rugby devi lasciar perdere gli ascolti, perché sai che puoi solo osservare un grande spettacolo ed è su quello che devi puntare; magari non raggiungi il tifoso che soffre perché sa già in anticipo che 90 volte su 100 non potrà gioire per una vittoria, però puoi attirare sempre l’attenzione di chi si fa rapire da uno spettacolo di sport unico. E questa è anche la nostra missione».

Ai vertici di World Rugby si sta pensando a una grande rivoluzione nei calendari internazionali e nelle regole. C’è chi vorrebbe dare un taglio alla tradizione dei tour invernali ed estivi e riunire in un grande contenitore Sei Nazioni e Rugby Championships, inventare un meccanismo di promozioni e retrocessioni in una sorta di World League globale e continua, che riunisca in un unico torneo l’eccellenza del mondo che gioca a rugby. Lo scopo ufficiale è quello di allargare i confini del pianeta ovale, quello reale potrebbe essere il desiderio dei paesi dell’emisfero australe di mettere le mani sul tesoro di denari che si tiene stretto il Sei Nazioni, che, non dimentichiamolo, è pur sempre un’organizzazione privata che crea e gestisce un business fiorente. In questo modo non si va a violentare uno dei fondamenti del rugby, ovvero la tradizione?

«Rispondo da uomo di televisione. La strada è quella giusta e lo dico anche sulla fiducia. Perché il rugby è stato il primo a introdurre novità pazzesche, lasciamo stare il Tmo che è stata una vera e propria rivoluzione culturale adottata con una naturalezza che solo il rugby poteva avere per il suo vissuto, ma i dialoghi in diretta tra arbitro e giocatori, la telecamera personalizzata dell’arbitro, guardate che non sono cose da poco. Sono state una rivoluzione e oggi molti sport stanno provando ad adottarle, perché hanno capito quanto ne possa beneficiare il prodotto. Non fasciamoci la testa, oggi lo sviluppo o la semplice sopravvivenza al vertice di molti eventi internazionali e di molti sport è legata agli investimenti dei network televisivi. Il mercato dei diritti alimenta lo sport e allora è giusto che lo sport si adegui alle esigenze del suo datore di lavoro. La tradizione è una cosa bellissima e devi saperla custodire e raccontare con passione, trasmettere come un bene e non come un patrimonio perduto. Ma guardiamo cosa ha fatto il cricket introducendo lo “one day game”, sicuramente avrà subito l’assalto di qualche custode del Sacro Graal, ma anche allargato i suoi confini di spettatori. E il tennis che ha deciso di mettere fine all’imprevedibilità della lunghezza dei suoi incontri inventando il tiebreak. Adesso che anche Wimbledon si è piegato all’esigenza di aver una durata certa delle partite qualcosa lo avremo pure perso, ma altrettanto se non di più lo abbiamo guadagnato. Mi ricordo un incontro infinito in cui dovemmo alternare quattro telecronisti per sfinimento… Bellissimo, un record che oggi racconto, ma dobbiamo andare avanti e rispettare le regole imposte dai diritti e doveri che ha chi trasmette un evento. Ci sono alcune discipline che non possono, per oggettive caratteristiche intrinseche, adeguarsi alle nuove esigenze delle trasmissioni. Il mio amato sci, per esempio, è sempre in balia delle condizioni atmosferiche, puoi stare due ore davanti al teleschermo aspettando che la nebbia si alzi o il vento si plachi. E poi sapere che la gara è stata rimandata, o aspettare dopo una caduta che tra un concorrente e l’altro vengano ripristinate le condizioni di sicurezza. Guardate che per chi sta davanti a un televisore diventa davvero dura aspettare un’emozione che non sa quando, o se, arriverà. In questo il rugby ci ha offerto un’opportunità pazzesca e, guarda caso, proprio lo sport che più si è rinnovato in fatto di tecnologie è quello che più ha mantenuto intatto il suo vissuto di tradizioni, storia, valori. E allora dico che il rugby va sempre trasmesso…».

Però smontare a pezzi il Sei Nazioni può davvero diventare pericoloso… «Sì, è un rischio grandissimo, ma sono sicuro che si troverà il modo di innovare mantenendo intatto il fascino di un evento unico, vincente solo perché esiste. Penso a noi di Sky: oggi abbiamo solo il rugby dell’altro emisfero, magari con la creazione della nuova struttura internazionale potremmo riunire in un unico contenitore l’intera offerta di rugby. Se con uno sforzo, noi o chiunque altro, riuscissimo a ottenere su un canale, una piattaforma o una rete terrestre facilmente riconoscibile dal pubblico, la possibilità di trasmettere tutto il grande rugby internazionale a beneficiarne non saremmo solo noi, ma prima di tutto il rugby e il suo pubblico. Ecco perché stiamo lavorando tutti i giorni per ottenere la trasmissione del Mondiale. Perché il rugby per chi fa televisione ha un suo perché. E noi di Sky lo sappiamo da sempre».

 

Giovanni Bruno, 62 anni, nella sua carriera professionale è stato direttore di Rai Sport e di Sky Sport.

 

 

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