Formazione, club e Accademia. Il punto di Stephen Aboud
Sono trascorsi tre anni dall’arrivo di Stephen Aboud in Italia. Circa ventiquattro mesi fa, in una delle sue prime apparizioni pubbliche, l’ex responsabile dello sviluppo tecnico della federazione irlandese, spiegò che il primo dei suoi obiettivi nel nostro Paese era “alzare la marea” del movimento ovale. Una bella metafora per dire che se non si cresce dal basso è difficile ottenere risultati con la Nazionale.
Questo è il punto fatto con lui a maggio del 2018 (Allrugby 126). I temi restano tutti attuali, anche dopo il nono posto conquistato dalla U20 in Argentina.
Di Gianluca Barca
“Il nostro è un percorso in costante progresso – spiega Aboud -: abbiamo modificato la didattica dei corsi allenatori, completato quelli di primo e secondo livello, presto andremo a concludere il terzo, le risposte sono positive. È un programma di vasta portata che comprende anche i giocatori, i Centri di formazione permanente (Cdfp), l’accademia”.
Molti dicono che i nostri allenatori non sono all’altezza, che sono l’anello debole della catena.
“Non mi interessa dare un giudizio, buoni o cattivi, mi interessa rendere le cose meglio di quello che sono. Come possiamo crescere? Dove possiamo migliorare? Queste sono le domande cui voglio dare una risposta. Per me, la maggior parte dei tecnici che ho incontrato è di buon livello: l’obiettivo è portare quelli meno bravi nella fascia intermedia e quelli di valore medio verso l’eccellenza. Al Festival U18 (aprile 2018, ndr) abbiamo battuto l’Inghilterra e perso, 17-20, per un calcio di punizione allo scadere contro l’Irlanda…cosa vuol dire?”.
Me lo dica lei.
“Vuol dire che stiamo lavorando bene. E che dobbiamo continuare per fare meglio. E che questa crescita deve riguardare tutti: la federazione, i tecnici, i club, i giocatori, chi raccoglie le risorse, chi le amministra, voi giornalisti che scrivete di rugby. Tutti possono crescere e migliorare”.
Voi da dove siete partiti.
“Abbiamo ridotto da 9 a 4 i Cdfp: i giocatori coinvolti non erano tutti di alto livello e il rischio era quello di diluire la qualità. In questa maniera abbiamo messo i migliori con i migliori e concentrato le risorse in un numero più ristretto di strutture, l’eccellenza non può essere frutto di una produzione di massa, il talento non si crea in serie”.
Allora mettiamola così: in Irlanda, i Ringrose, gli Stockdale, i Sexton crescono perché sono allenati meglio o semplicemente perché il bacino da cui pesca il rugby irlandese è molto più vasto rispetto all’Italia?
“Ci sono più cose da dire a questo proposito. La prima è che in Italia non avete lo sport nella scuola, mentre in Irlanda ci sono almeno una ventina di college che dispongono di grande tradizione rugbistica, di risorse e che permettono ai ragazzi di giocare, da quando hanno 13 anni, a volte meno, settimana dopo settimana, competizioni di notevole intensità agonistica e con grande seguito di pubblico. Questo fa la prima grande differenza.
Mio padre è andato al Blackrock College di Dublino, io ho seguito le sue orme e mio figlio le mie. E quando entri in quelle sale la prima cosa che noti sono le foto delle squadre di rugby, le prime risalgono a più di 150 anni fa. E sai cosa fa la differenza in ciascuna di quelle foto? Avere o non avere la coppa davanti a sé. Al Blackrock è come in Nuova Zelanda, dove i giocatori si dividono in quelli che sono stati All Blacks e quelli che sono stati All Blacks ma hanno perso con il Sudafrica o con l’Inghilterra o con chi volete voi. O, in Brasile, quelli che hanno vinto la Coppa del Mondo e quelli che hanno perso la finale o la semifinale. È così anche col calcio in Italia, no? Della stessa squadra si ricorda chi ha vinto la Champions e chi no.
Vuol dire arrivare a 18 anni con un vissuto, un’esperienza di rugby che sicuramente in Italia non c’è. Però, a questo abbiamo dimostrato di saper almeno in parte sopperire. I risultati cominciano ad esserci”.
Allora il punto qual è?
“Il passo ulteriore è che i più bravi di questi ragazzi, in Irlanda, a diciotto anni, entrano in una delle Accademie provinciali (Connacht, Leinster, Munster, Ulster) dove cominciano ad allenarsi regolarmente con i pro”.
E dove giocano?
“All’inizio giocano in un club, senior o U20, un club irlandese vale più o meno quanto uno di Eccellenza (Top12). La stagione successiva, invece, cominciano a giocare con la maglia del Leinster o del Munster, o delle altre province, nella British and Irish Cup, che è di fatto un torneo delle seconde squadre provinciali. Poi giocano con la nazionale U20 e, se sono all’altezza, magari cominciano a prendere confidenza con il PRO14. Infine a 21 anni arrivano l’offerta di un contratto “pro” o “development” e la possibilità di giocare in PRO14 e in Champions o Challenge Cup. È un percorso uniforme, tutto centrato sull’obiettivo di raggiungere il livello internazionale. E il dato di fondo è che in questi tre anni i ragazzi vivono una full immersion agonistica e tecnica, a stretto contatto con giocatori più forti, dove usufruiscono di tutto quello che serve per diventare atleti di primo piano e meritarsi un contratto e dove sono spinti a dare il massimo per arrivare alla maglia dell’Irlanda. È un apprendistato tecnico e mentale senza pari”.
Da noi è abbastanza diverso.
“In Italia è un po’ più complicato perché, in Irlanda, entrare in un’Accademia, nella maggior parte delle situazioni, non significa andare via da casa, dover cambiare scuola o università, hai il meglio e continui a fare la stessa vita di prima. Nel frattempo acquisisci la mentalità del professionista. Qui i Cdfp si sovrappongono alla scuola, devi fare scelte radicali e, poi, quando esci dall’Accademia, a vent’anni, devi decidere dove andare”.
Tendenzialmente in un club di Eccellenza o in una franchigia…
“Giusto. Ma per me le condizioni fondamentali per la scelta sono tre (qui Aboud si accalora e mostra le diverse opzioni con le tazzine del caffè e le bustine di zucchero che sono sulla tavola): devi andare in un club dove giochi con regolarità, dove puoi beneficiare di un allenamento specifico per il tuo sviluppo e la tua crescita e dove hai il meglio dal punto di vista della preparazione atletica, della nutrizione, dell’assistenza medica. Il primo punto è che quando esci da un centro di formazione, difficilmente, a 18 anni, hai la possibilità di giocare in un club con regolarità. Quindi è fondamentale che tu possa andare all’Accademia, quella che era Parma e oggi è a Remedello. E dove hai tutto quello che serve per crescere e con la quale giochi nel campionato di Serie A”.
Basta una per tutti?”
“Idealmente ce ne vorrebbero due, ognuna delle quali connessa a una franchigia, dove vivere il professionismo a contatto con i giocatori della Nazionale e acquisire quel carattere. Poi però bisogna capire dove fare giocare i ragazzi, non possiamo avere due squadre delle due accademie in serie A o in Eccellenza… ”.
Poi però il problema sussiste anche quando si esce dall’Accademia e si fa il salto in un club o più ancora in una franchigia.
“Il punto è che un ragazzo che ha frequentato due anni in un Cdfp e un altro in Accademia, dove ha avuto il massimo, deve continuare a crescere con tutte le attenzioni e le necessità del caso. Non può fermarsi o tornare indietro. Deve andare in una realtà che può metterlo in condizione di continuare a migliorare, sotto tutti gli aspetti”.
Potrebbe essere una franchigia?
“È un dibattito aperto: per qualcuno potrebbe essere utile rimanere un anno in più in Accademia, oggi quelli del secondo anno sono meno rispetto a quelli del primo. E se vanno in franchigia e non giocano è un problema. Quindi è essenziale che eventualmente, nel fine settimana, possano tornare al club e giocare in Eccellenza, “permit” al contrario, con doppio contratto. Ma per tutto questo è necessaria un’unità di intenti, una visione comune fra tutti, federazione, franchigie, club. La scelta deve cadere sul meglio per lo sviluppo del giocatore”.
In Irlanda è stato facile arrivare a quel traguardo?
“Tutt’altro, ci sono stati urli e strilli. Ci sono voluti 20/25 anni per mettere a punto il sistema. Ma oggi un giocatore sa che quando entra in un Academy dispone del massimo”.
I club in Italia non hanno queste competenze?
“Alcuni di più, alcuni meno. Però la mia domanda è: qual è lo scopo delle franchigie, per quale motivo sono state allestite e vengono finanziate?”
Proviamo a rispondere: per creare un livello intermedio fra i club e la Nazionale e aiutare la crescita dei giocatori in chiave azzurra…
“Perfetto, quindi vanno utilizzate in quella direzione e le risorse investite vanno sfruttate per quello scopo…”.
Però nelle franchigie ci sono anche parecchi stranieri.
“Finché qualunque neozelandese o sudafricano sarà meglio degli italiani è inevitabile che qualche posizione venga coperta da loro. L’obiettivo è alzare complessivamente il livello per far sì che per entrare nelle franchigie ci sia realmente una battaglia feroce fra i giocatori che provengono dai nostri centri di formazione. Penso alla terza linea: già oggi ci sono Mbandà, Giammarioli, Licata, Lazzaroni e in arrivo ci sono Pettinelli, Lamaro, Bianchi e forse ne dimentico qualcun altro ancora. Presto la competizione sarà molto serrata, ognuno spingerà per ritagliarsi un posto in franchigia e in Nazionale. È quello che vogliamo: fare in modo che ogni giorno ciascuno sia spinto a dare di più, ad aumentare l’intensità del suo impegno. E dobbiamo avere questa competizione in tutti i ruoli. Dai Cdfp e dall’Accademia deve arrivare un flusso costante e l’accesso a Treviso e Zebre deve diventare il collo di bottiglia verso il quale spinge tutto il movimento, con i suoi migliori giocatori”.
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