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Articolo pubblicato su Allrugby numero 142

 

Terza linea di razza, azzurro 139, una carriera professionale in Africa, la passione per i cavalli. Signori ma soprattutto signore, ecco a voi Gianfranco Zanchi

 

L’unica Coppa Cicogna - campionato giovanile - vinto dal Rugby Milano risale al 1949. Di quel XV in tanti finiranno in prima squadra. Uno, per altezza e talento, svetta sugli altri. Gioca da un paio di anni a terza centro e si chiama Gianfranco Zanchi: pesa solo 75 kg ma palla in mano è inarrestabile, placca come un disgraziato e ha una grinta fuori dal comune. Esordisce a vent’anni in serie A e per quattro anni disputa tutte le partite di campionato finendo per battere il record di 67 apparizioni consecutive detenuto da un suo compagno di squadra, Francis Martinenghi, un tre quarti mortifero tanto in campo quanto in osteria.

 

Il suo nome di battaglia è “Gabbiano”, di etimo incerto. Lui la raccontava come segue: “Quando giocavo e partivo io volavo. Aprivo le braccia e volavo, bello e incredibile”. Bello era bello: capello spettinato, insolito per l’epoca, poi alto, gran sorriso, braccia e mani lunghissime che gli consentivano formidabili prese in touche e placcaggi ora proibiti. “Era un gioco diverso rispetto ad adesso”, raccontava, “Soprattutto il nostro perché grazie a un allenatore come Cesare Ghezzi imparammo ad occupare tutto il campo. Di solito si faceva arrivare la palla all’ala e poi si calciava al centro per trovare gli avanti. Secondo Ghezzi i primi otto dovevano occupare tutto il campo, muovendo l’ovale al largo per poi tornare indietro, senza fare la guerra tra i più forti”.

 

Grazie al Ghezz in panchina e Origoni alla Presidenza i biancorossi rivaleggiano per tutto il decennio con le venete, tengono testa all’Amatori nei derby e rischiano perfino di vincere uno scudetto in finale con le Fiamme Oro nel 1958. Il club è un coacervo di operai, fruttivendoli, studenti che giocano e si allenano al Giuriati e si ritrovano al “Biscione”, in pieno centro. Le notti milanesi in zona Brera cementano lo spirito di squadra, mentre le trasferte in treno diventano imprese da raccontare ai nipoti. Capita a L’Aquila di essere scortati da un cordone di Polizia mentre il pubblico grida “fuori gli stranieri”. Di contro a Parma i biancorossi saranno habituè di una famosa casa chiusa, tanto da essere invitati per la serata conclusiva prima dell’entrata in vigore della legge Merlin. Di quella squadra, di cui è stato anche capitano, il Gabbiano è sempre tra i migliori. E se grazie alle sue conquiste riesce ad aprire ai compagni un “giro di fanciulle mica da ridere, gente dello spettacolo” (Giorgio Ricciarelli), in campo commuove, come testimoniato dagli articoli dell’epoca: “sbalorditivo nelle azioni di copertura e di contro-piede”; “Zanchi esemplare: la vittoria porta la sua firma, il pubblico l’ha capito e gli ha tributato applausi a scena aperta”; “Sembrava che dopo ogni cosa, ad ogni placcata non dovesse più rialzarsi: per questo l’avevano anche chiamato “agonia”. Ed invece era sempre pronto, sempre di nuovo in piedi, più sporco, più spettinato di prima, ma di nuovo correva, placcava e poi ancora correva”.

 

In quel rugby praticato da pochi e seguito a malapena da parenti e fidanzate, si ricavano due soldi solo in caso di trasferte con la nazionale. Per il resto tutti si danno da fare. “Mio padre diceva che ero un pirla”, sempre Zanchi, “Mio fratello, che era più grande di me quando è morto mio padre, mi ha detto che era meglio se andavo a lavorare”. Per risposta finisce Economia e Commercio in Bocconi e di lì a poco è destinato a esperienze in Africa, prima a Mogadiscio, poi in Etiopia. È in Somalia che conosce Paola, cresciuta lì con la famiglia. Avranno due figlie, Francesca e Anna. “Ci siamo incrociati e piaciuti subito. Lui lavorava per l’Agip, divisione Est Africa, e doveva presto spostarsi ad Addis Abeba. Ci sposammo in fretta e in furia e poi ci trasferimmo insieme. Fu con le nozze che scoprii il suo soprannome, i telegrammi non facevano che riportare congratulazioni per tal “Gabbiano” e così iniziai a saperne di più del suo passato”.

 

Un passato che è fatto di grandi soddisfazioni: oltre alla gloria imperitura in biancorosso, si sommano cinque cap in azzurro: l’esordio è a ventiquattro anni ad Hannover, contro la Germania Ovest. Gioca numero 8 con accanto due mastini d’eccezione: il romano Sergio Barilari e il parmigiano Sergio Lanfranchi. Finisce 21-3 e la settimana successiva si bissa con la Romania (14-16). Deve poi aspettare due anni per vestire ancora la maglia della nazionale: stavolta è schierato a flanker sia nell’8-0 alla Spagna ai Giochi del Mediterraneo sia, in dicembre, nel 17-6 alla Cecoslovacchia. L’ultima apparizione è nella sua Milano, nel 1957, quando calca per la seconda volta in carriera l’erba dell’Arena. “Per noi c’era solo il Giuriati”, soleva raccontare, “non eravamo all’altezza. È capitato in un’amichevole con gli studenti sudafricani e poi quella volta con la Nazionale con la Germania (8-0)”.

 

Chiusa la carriera ovale, come detto Zanchi inizia una carriera amministrativa tra Agip, Fiat, Impregilo, alternando l’Italia a lunghi periodi nel continente nero. Lo sport rimane al centro dei suoi interessi: golf, palestra e soprattutto equitazione. “I cavalli sono stati la sua grande passione dopo il rugby”, ci confida la moglie, “oltre a seguire una scuderia, partecipava alle gare. Di solito cross country ma anche concorsi”. L’affermazione più importante del Gabbiano è nientemeno che la Coppa delle Nazioni, a Merano nel 1968. Ovviamente nella categoria gentleman. “Vinse al fotofinish, dopo enormi sforzi per rientrare nel peso: per scendere a quello richiesto (68kg) cenò a lungo senza sale, prese pastiglie di diuretico. Tanto fece che arrivò addirittura a 65, obbligando i giudici ad aggiungere i 3000 grammi mancanti”. In questi anni Zanchi ritrova i vecchi amici del rugby, come Armando Pancaro, Giorgio Ricciarelli (“il gatto e la volpe”, dice la moglie sorridendo) e tutta la banda che, una volta in pensione, troverà un nuovo Biscione nella cantina di un elettrauto, Gabriele “Lele” Cabrio, altro peso massimo (in tutti i sensi) del rugby meneghino. “Negli ultimi tempi preferiva non andarci, non se la sentiva. Gli amici gli offrivano un passaggio ma lui fingeva di doversi occupare dei nipoti. È stato un marito fantastico, un padre meraviglioso, una persona generosa, stimata da amici e colleghi”. E dal mondo femminile, aggiungiamo: “È vero: aveva fama di latin lover ma quando mi raccontavano delle sue conquiste, spesso in compagnia del fido Armando, mi diceva sempre di non preoccuparmi perché appartenevano al passato, ovvero a prima del matrimonio. Anche se, conoscendolo, non mi illudo che qualche birichinata l’abbia fatta anche da sposati”.

Non stava bene da tempo e nell’ultimo periodo sembrava avesse rinunciato a lottare, evitando perfino di mangiare. Si è spento in una grigia giornata di settembre, in pieno mondiale giapponese, nel giorno dello storico Giappone-Irlanda. Chissà dove ha scelto di volare.

 

Post scriptum

Un giorno di tanti anni fa, incalzata in una trasmissione, chiesero a Sandra Mondaini se ci fosse stato un altro uomo, ovviamente prima di Raimondo Vianello, di cui serbasse un ricordo. “Solo uno, giocava a rugby. Era soprannominato il Gabbiano”. Tutto vero.

 

 

La foto è relativa alla Coppa Cicogna del 1949, lui è in basso a sinistra, il capellone piegato. In trionfo è il Presidente Origoni.

 

 

 

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