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Alberto Lucchese e le tradizioni di famiglia. Il padre titolare di un avviato bar a due passi dalla centralissima piazza dei Signori, lui, classe 1986, trevigiano di Preganziol, mediano di mischia dell’Italia al Sei Nazioni (Dublino 2016) e in Pro 12 con la Benetton, sta per aprire il suo locale a Venezia, dalle parti del ponte di Rialto, in zona Mercato. Questione di qualche settimana.

“Con il rugby ha chiuso” racconta Umberto Casellato, suo concittadino e amico, attualmente sulla panchina delle Fiamme Oro. Fu lui, dopo averlo testato nel corso delle due stagioni trascorse a Mogliano (una semifinale e uno scudetto, quello vinto a Prato contro i Cavalieri, nella finale che elesse proprio Lucchese Man of the match), a volerlo nella rosa della Benetton nel campionato Celtico 2015 - 2016. Un’avventura che per il tecnico finì con un esonero e che per il numero 9 si trascinò stancamente e con minutaggi molto ridotti, fino alla scadenza naturale del contratto, che non venne rinnovato. A un certo punto dell’estate pareva fatta con le Zebre. Si parlò, infatti, con una certa insistenza, di un suo passaggio alla franchigia di Parma (dove avrebbe trovato i pari ruolo Violi e Palazzani). Sostenuto, il trasferimento, dal parere ampiamente favorevole di coach Gianluca Guidi. L’ingaggio del sudafricano Engelbrecht, voluto (pare) più dalla dirigenza che dal settore tecnico zebrato, chiuse ogni possibile sviluppo di una trattativa che pareva sul punto di chiudersi positivamente. “Non una bella conclusione” osserva Casellato. “E non escludo  - continua – che sul mancato rinnovo con Treviso, abbia pesato il fatto che veniva considerato un  mio uomo. Forse sbaglio, esagero. Ma ho questa sensazione. Certo è che perdere per sempre un giocatore con le sue qualità rappresenta qualcosa di poco comprensibile. Anche alla luce del fatto che, in giro, non è che i talenti abbondino…”.

E di talento, Alberto Lucchese ne aveva, ne ha. La chiamata in Nazionale ha rappresentato il punto più alto della sua carriera, ma erano in molti, solo un anno fa, a prevedere una continuità di risultati che poi non c’è stata. “Il nostro primo contatto a Mogliano non fu dei più semplici” ricorda Casellato, che per quasi quattro mesi lo utilizzò prevalentemente in panchina o in tribuna. “Qualche sua ruvidità comportamentale e una latente indisciplina di fondo, mi avevano indotto a tenere ferma la barra del rigore” spiega il tecnico trevigiano. “Ma la sua conoscenza del gioco, la sua capacità quasi innata di dare ritmo alla squadra, il suo essere sempre nel cuore del gioco con l’obiettivo di tenere alta l’intensità, la sua generosità in difesa e l’ottima tecnica individuale, mi avevano convinto delle sue qualità. Quando qualche angolo fu smussato, entrò stabilmente in squadra da titolare e per due anni fu un punto di riferimento certo per tutti i compagni. Il suo contributo nell’anno dello scudetto fu notevole, e l’anno prima solo un infortunio (in riscaldamento, ndr) gli impedì di fornire il suo contributo fino alla fine”. Oltre che dotato di un buon passaggio e di un discreto gioco al piede, Lucchese eccelleva nella difficile “arte” del recupero. Ancora Casellato: “Costrinse al tenuto a terra i giocatori di Northampton per quattro volte nel corso della stessa partita. Un dato talmente anomalo, trattandosi di un mediano di mischia, che il club inglese ne fece specifica e ammirata menzione sul Program ufficiale dell’incontro di ritorno”. A Treviso trovò Ugo Gori sulla sua strada. “I due hanno caratteristiche differenti e, a loro modo, interpretano molto bene il ruolo di numero 9” il parere di Casellato. “Se Gori dà il meglio di sé nell’impegnare e nel fissare le difesa ai lati dei punti d’incontro, Lucchese è invece un grande passatore e ha scelte di tempo notevolmente accurate. I due si completavano e formavano una coppia di qualità per un ruolo tanto delicato”.

Pare che una volta non riconfermato a Treviso e sfumata la pista Zebre, qualcuno abbia sentito Lucchese dire: “Di rugby preferisco non sentire più nemmeno parlare”. Voci raccolte in città, magari un po’ forzate. Ma che un rugbista di trent’anni decida di darsi a tempo pieno alla ristorazione, tagliando tutti i ponti con lo sport che tante soddisfazioni gli aveva dato, è un fatto. “Che non fa onore al nostro movimento”, la conclusione amara di Umberto Casellato.

 

Foto Elena Barbini