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Il periodo del 6 Nazioni è uno dei più emozionanti dell'anno per me e per i tanti appassionati di Rugby. Già lo era quando seguivo le partite in TV, ma da quando ho iniziato a immergermi nelle felici bolgie del Flaminio o dell'Olimpico, luoghi magici capaci di regalare esperienze indimenticabili, lo è diventato ancora di più. 

Quest'anno vivremo il primo torneo dell'era O'Shea. Il coach dell'Italrugby ha da poco diramato le convocazioni che come ci aspettavamo non hanno riservato sorprese. C'è da proseguire il lavoro iniziato nei mesi scorsi, ribadendo la fiducia a quel gruppo di giocatori che ha già dimostrato di potersi distinguere nell'applicare con la giusta intensità gesti tecnici e piani di gioco. Le luci e le ombre di Benetton e Zebre, che in questa stagione stanno alternando momenti felici ad altri molto meno, saranno presto messe da parte passando a un livello di esposizione mediatica molto superiore.

Il primo match ci vedrà impegnati con il Galles, una squadra estremamente interessante dal punto di vista della prestazione sportiva. Con la gestione del neozelandese Warren Gatland, head coach dal 2007, la Nazionale con le piume del Principe di Galles ha fatto della solidità mentale un punto di forza indiscutibile, rendendo la squadra capace di giocare con un'intensità e una lucidità rare, soprattutto nelle fasi finali di ogni match. Indimenticabile, ad esempio, la vittoria del Galles a Twickenham durante i Mondiali del 2015. 

In quella partita il numero 10 Dan Biggar è diventato allo stesso tempo un simbolo e un personaggio. Simbolo di una squadra fredda, dura, che non molla mai. Personaggio, invece, lo è diventato per lo strano “balletto” che il buon Dan mette in scena prima di ogni calcio piazzato, quando lo stadio ammutolisce, le telecamere convergono su di lui e qualche milione di persone stringe un po' più forte la birra che tiene in mano.

Verrebbe da pensare in un gesto premeditato, da chi sa come attirare l'attenzione su di sé, se non fosse che nelle interviste Biggar risulta sempre molto schivo e professionale.

Qual è allora il senso di quella specie di danza che i tifosi di tutto il mondo chiamano ormai la “Biggar – Macarena”?

Analizzarla ci può far comprendere meglio alcuni meccanismi generali della prestazione sportiva.

Abbandoniamo per un attimo i comodi cuscini dei nostri divani e cerchiamo di metterci nei panni di un calciatore. Inizialmente non importa che si tratti di un calciatore di alto livello, può essere anche un attempato giocatore della nostra serie C oppure un ragazzo di sedici anni con molti sogni in testa. Ebbene, nessun altro giocatore di rugby ha la responsabilità della squadra sulle spalle come il calciatore quando sistema il pallone e prepara la rincorsa. I possibili giudizi di tifosi, compagni e staff pendono sulla sua testa, le sue aspettative di riuscire a mettere finalmente in pratica ciò che ha provato in allenamento attendono conferma con occhi feroci ed è inevitabile che questa situazione generi la cosiddetta ansia da prestazione

Il rischio è che l'atleta si senta così in dovere di raggiungere il risultato da concentrarsi solo su quello. 

Nella sua testa si ripete, più o meno consciamente: “Devo assolutamente buttarla dentro”, come se  per riuscirci bastasse solo la sua forza di volontà e la telecinesi. Ripetendo questo mantra, il calciatore ottiene due soli risultati: alimenta la sua già fisiologicamente alta tensione psicologica e non riesce a prestare la sua completa attenzione all'unica cosa che conta: compiere in modo corretto il gesto che dev'essere compiuto. 

Il risultato sarà una prestazione decisamente migliorabile e un livello di frustrazione dell'atleta sopra il livello di guardia.

E' un rischio inevitabile, che ogni calciatore di alto livello deve imparare a gestire. 

I grandi campioni spesso ci riescono da soli, intuitivamente, ed è per questo che statisticamente sono così pochi: hanno dalla loro una irripetibile combinazione di storia personale, educazione e intelligenza che permette di trovare in autonomia la soluzione a problemi complessi.

Tutti gli altri possono sfruttare le scoperte che decenni di psicologia positiva mettono a loro disposizione. Elemento fondamentale in questo senso è quello di riuscire ad accettare il proprio fisiologico livello di  tensione. Cercare di ridurla non è solo inutile, ma è anche controproducente: la tensione infatti ci prepara per poter essere performanti di fronte a una situazione di pericolo (inteso in senso lato, quando si parla di sport). 

Accettare la tensione infatti non vuol dire abbandonarsi al nervosismo, ma prendere consapevolezza che il nostro corpo è frutto di milioni di anni di evoluzione e che ogni sua reazione ha una funzione ben precisa a nostro favore. 

Se l'atleta invece interpreta razionalmente il batticuore, il fiato corto e la maggiore rigidità muscolare come una colpa, come un segno della “paura di non farcela”, non raggiungerà mai la prestazione ottimale. Cercherà di placare forzatamente quei sintomi e otterrà così l'effetto contrario, perché la parte più atavica del nostro cervello, l'amigdala, non sente ragioni: di fronte a una resistenza aumenterà ancora di più la forza della sua reazione.

Biggar è un grande campione o ha semplicemente una grande preparazione mentale? Propendo per la prima ipotesi. Con quel balletto più o meno involontario riesce a oscurare i sintomi del suo nervosismo, senza rifiutarli. Il suo, come ogni rito, è la risposta a un momento critico. Come sosteneva l'antropologo Ernesto De Martino, il rito costituisce una “tecnica della presenza”, un modo per raggiungere un coinvolgimento completo. Non è quindi strano che quello di Biggar sia considerato una danza, anche se, invece che alla Macarena, potremmo senz'altro accostarla più utilmente alla Haka Maori.

 

Foto Alessandra Lazzarotto