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Finisce un altro amaro 6 Nazioni per la Nazionale maschile, caratterizzato da molti bassi e pochi alti e concluso con la partita di sabato, dominata e persa con la Francia. Tutto il dibattito che ne è seguito è stato segnato da un filo conduttore ben preciso, quello della negazione della realtà.

Nega la realtà Conor O’Shea quando continua ad affidarsi alla stessa squadra ormai da quasi due anni, senza riuscire a cavare un ragno da un buco. La nega quando convoca stranieri equiparati invece di preparare adeguatamente all’esordio i nostri giovani, la nega quando avalla l’acquisto di stranieri di medio (?) livello nelle franchigie.

La nega il Presidente Gavazzi quando parla di “un gap ridotto” tra la nostra nazionale maschile e le altre del 6 Nazioni. A pochi mesi da un mondiale che chiude un ciclo, era doveroso essere ben più avanti nella crescita del movimento, che oggi è valorizzato solo da un’ottima stagione del Benetton in Pro14 (sì, non è poco, ma nemmeno abbastanza).

Negano la realtà quei tifosi che sostengono che tutto il movimento italiano sia inesistente e incapace di generare giocatori. La negano anche quelli per cui criticare è ingiusto, i nostri vanno solo applauditi.

Negano la realtà gli addetti ai lavori quando si soffermano solo sull’analisi di tecnica e fisico, quando è evidente che il primo problema della nostra nazionale è l’incapacità di preparare i giocatori a gestire se stessi e la squadra nei momenti topici delle partite.

Gli unici che sembrano aver preso atto della realtà, lo scrivo provocatoriamente, sono quei tifosi che hanno abbandonato da tempo lo Stadio Olimpico, a favore di tifosi stranieri in cerca di vacanze romane.

Negare la realtà vuol dire farsi travolgere dalle emozioni del momento e non riuscire a capirla con la necessaria lucidità. Ora più che mai è necessario invece guardare i fatti, prendere atto senza riserve e ripartire dalle ottime premesse che O’Shea aveva offerto al movimento: allargare la base, aumentare la competizione e investire nel futuro, cioè sui nostri giovani, che ci sono (basta guardare l’under 20) e non aspettano altro che di essere guidati verso i piani nobili del rugby internazionale.

 

 

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Foto Alfio Guarise

 

 

 

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