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Il finale di Sei Nazioni 2020 maschile ci ha portato due partite largamente insoddisfacenti e non solo nel punteggio. Tecnicamente, la Nazionale maggiore maschile è squadra che non riesce a produrre gioco, quando ci prova fatica a mantenere il possesso a causa di un sostegno costantemente in ritardo, in più la difesa fatica tantissimo: tutto visto e rivisto negli ultimi sei/sette anni, cioè dall'ormai sbiadito Sei Nazioni del 2013.

In questa rubrica che si occupa degli aspetti mentali della prestazione abbiamo più volte affrontato l'argomento, che non può più esaurirsi in semplici deficienze tecniche. I nostri giocatori offrono ottime prestazioni a livello di Under 18 e Under 20. Quando hanno esordito in Nazionale i giovani, anche in questi giorni, raramente hanno fatto una figuraccia, anzi: spesso non hanno fatto rimpiangere l'equiparato di turno. Manca la capacità di far fruttare quelle qualità ad altissimo livello, di tradurle in prestazione quando la pressione è il trentunesimo, ingombrante uomo in campo.

Se dovessimo dettagliare quello che non va in questa squadra, potremmo farlo con due parole: scarsa intensità. Franco Smith ne ha parlato più volte, ma sempre facendo riferimento alla preparazione fisica, tanto da portarsi in azzurro un preparatore sudafricano.

Il suo errore continua quindi a essere quello di Mallett, di Brunel e di O'Shea: non accorgersi dell'enorme gap formativo che c'è tra i nostri ragazzi e quelli delle nazionali Top Ten in merito allo stato mentale con cui si affronta la prestazione.

Ascoltando le interviste di oggi, ma soprattutto parlando con i Nazionali di ieri (che oggi si possono permettere di parlare a ruota libera) si percepisce chiaramente la presenza di questo gap, che è anche culturale: un giocatore sudafricano o argentino o inglese o neozelandese si forma in un ambiente in cui la resilienza, l'accettazione, la concentrazione sul gesto sono dati di fatto, sono esempi concreti che hanno continuamente sotto gli occhi, non c'è nemmeno bisogno di parlarne. L'ambiente sportivo italiano, indipendentemente dallo sport, non è così e nel rugby, sport che non ammette pause, tutto è più evidente.

Qui sta la radice della mancanza di intensità che si vede in campo, non in una forma fisica che dell'intensità è uno dei presupposti.

E' impossibile credere che dopo cinque minuti di partita il sostegno italiano sia già in affanno per cause fisiche. La ragione del ritardo sta nella mancanza di reattività e lucidità dovuta dalla pressione.

E' impossibile pensare che alla terza percussione degli avversari la nostra difesa si stia già sfilacciando solo per scarso atletismo. La ragione del disordine sta nell'incapacità di prendere decisioni efficienti sotto pressione in merito ai canali difensivi.

E' impossibile che i nostri giocatori escano costantemente da una ruck in ritardo rispetto agli altri per stanchezza. La ragione sta nel fatto che impiegano più tempo a ridefinire la loro concentrazione dopo un'azione stressante.

I nostri giocatori, quando sono sotto forte pressione, pensano: e questo li rende più lenti, inefficienti e prevedibili. Il pensiero è nemico degli automatismi, dell'imprevedibilità e del raggiungimento delle nostre potenzialità, che avviene immancabilmente non quando ci forziamo, ma quando ci lasciamo andare. Se negli ultimi dieci anni questo, a volte, è accaduto meno, è stato merito di quei senatori che nella squadra sapevano preparare il campo al verificarsi di un giusto stato mentale: i Lo Cicero, non certo i Sergio Parisse.

Arrivare a lasciarsi andare è un percorso culturale: non fisico, non tecnico. Se non lo si respira nell'aria, è necessario inserirlo prima possibile nei processi formativi, in profondità: per vincere con le migliori, le battute sulle maglie sporche di fango e sulle mamme alle prese con le lavatrici non bastano più.

 

 

Foto Alfio Guarise