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Articolo pubblicato su Allrugby numero 143

 

Ian Keatley non ha alcuna intenzione di giocare tanto per farlo. “Finché posso lo farò sempre al massimo”, dice. Con i piedi a Treviso e uno sguardo all’Irlanda.

 

Anche se non è più un ragazzino, ammirare in una franchigia italiana un giocatore del calibro di Ian Keatley dovrebbe rendere orgogliosi i tifosi del Benetton e, in second’ordine, quelli italiani. Titolare per anni di Munster, nel giro (seppur allargato) della Nazionale, solo con l’arrivo di Joey Carbery e l’imminente equiparazione di Tyler Bleyendaal ha finito per non trovare spazio e guardarsi in giro. Per sua stes- sa ammissione non si vedeva da nessuna parte che non fosse Limerick ma non poteva certo chiudere la carriera integro, a soli 32 anni: “Penso sia un grande privilegio giocare professionista. È un onore, soprattutto ragionando di quanti - per differenti motivi o ragioni - non ci sono riusciti. Farlo in Italia è un’opportunità per conoscere un’altra tipologia di rugby in una squadra di cui ho sentito solo un gran bene. La stessa esperienza ai London Irish (l’anno scorso in Championship insieme a Declan Kidney, nda), seppur breve e dopo aver già firmato per Treviso, andava nella stessa direzione: una mentalità nuova, un posto nuovo, tanto da imparare. In fondo per i primi trent’anni della mia vita non mi sono mai mosso dall’Irlanda”. Dubliner, trafila tra Belvedere (“Ollie” Campbell, Cian Healy, per dirne due) e University College Dublin, dopo un anno senza presenze in prima squadra con il Leinster si trasferisce a Connacht. Tre stagioni e 688 punti dopo ed eccolo a Limerick. Da Munsterman 1.247 punti e tanti Man of the Match.

 

“Il sistema irlandese funziona perché i giocatori sono pronti prima ancora di arrivare in Accademia. E non parlo solo a livello fisico e tecnico ma soprattutto mentale: in questo modo non hanno alcun problema a giocare al livello successivo, ovvero in Pro14. Il risultato? Leinster con la seconda squadra batte Glasgow come se in campo ci fossero i titolari”

 

A mancargli sono forse i trofei: non ha mai vinto il Pro14 né una coppa Europea, solo un Sei Nazioni con la Nazionale giocando una partita, l’esordio con l’Italia a Roma nel 2015. Preciso e decisivo al piede - dalla piazzola e di rimbalzo - solidissimo in difesa, ama giocare nell’intervallo. Un fuoriclasse. Che ha scelto Treviso perché “gioca un rugby attraente, ha uno staff di coaching di altissimo livello e la squadra è multiculturale”. Il suo obiettivo è fare l’allenatore, per questo è alla scoperta di nuove realtà: esperienza in vista del futuro. “A volte è difficile per la lingua, perché si spiega tutto in italiano e poi in inglese e ho sempre paura che non venga tradotto perfettamente quello che dico ma è giusto impegnarsi a imparare, fa parte del lavoro”. Una figlia, un matrimonio festeggiato prima di Natale, “la mia famiglia si trova bene in Italia e questa è la cosa più importante per rendere al meglio anche in campo”. Sui primi mesi al Benetton: “Penso siamo davvero un’ottima squadra: abbiamo avuto qualche problema, qualche infortunio di troppo (soprattutto durante l’assenza dei nazionali) ma abbiamo rischiato di battere Leinster e Ospreys in 14. Sappiamo bene che concedendo 12/13 falli è difficile vincere ma ci siamo andati comunque vicino. Segnare tanto e con tutti è un bel segnale, la difesa è ormai collaudata, quando risolveremo la questione disciplina vinceremo con più regolarità”.

 

“Quando guardo a voi italiani mi sembrate sempre fortissimi, non vedo differenze con gli altri. Però poi peccate di organizzazione e struttura, punti di forza delle squadre con cui vi confrontate”

 

Keatley è stato ingaggiato per dare profondità a un reparto non certo avaro di scelte: Tommaso Allan, Antonio Rizzi, Ian McKinley. “Sono venuto anche per questo, ovvero proporre uno stile da fly half diverso che possa aiutare gli altri a migliorare, a trovare ispirazione. Quando guardo a voi italiani mi sembrate sempre fortissimi, non vedo differenze con gli altri. Però poi peccate di organizzazione e struttura, punti di forza delle squadre con cui vi confrontate. Bisogna trovare l’equilibrio tra la vostra passione, il vostro flair e i principi cardine del rugby moderno. Solo così possiamo o potete battere i più bravi”. Parlare dei più bravi, almeno a livello europeo, significa parlare di Irlanda. La squadra di Andy Farrell è uscita con le ossa rotte dal mondiale giapponese ma per Ian Keatley questo non è poi così importante per ragionare di futuro: “Per una nazione come la nostra arrivare alla Webb Ellis Cup da numeri uno del ranking è stato qualcosa di pazzesco, indimenticabile. E dimostra quanto siamo stati forti, consistenti e bravi nel recente passato. E una performance al di sotto delle aspettative è solo la riprova che il rugby, quando non sei al 100%, non ti lascia scampo. E con un top team (la Nuova Zelanda, ndr) può capitare di perdere facile nei quarti di finale. Ora però c’è tanto tempo davanti e un allenatore nuovo, inglese. Sono ottimista: Farrell porterà nuove idee, nuovi stimoli, un background diverso da quello di Schmidt. È come la scelta di trasferirmi in Italia: le influenze diverse arricchiscono e la passione irlandese non può essere svanita per due partite storte”. C’è ottimismo nei confronti dei verdi ma anche nei confronti di noi Azzurri, dato che la situazione è analoga: “Penso O’Shea abbia lavorato bene e ora con Franco Smith potrete anche voi mischiare le carte con un altro stile di rugby, vi farà bene il cambiamento”. Sul capitolo capitano dell’Irlanda, Keatley ha una sua teoria, che deriva dalla sua esperienza a Limerick: “c’è grande attesa per la scelta di “Faz” per il dopo Rory Best ma l’Irlanda è piena di giocatori in grado fare da skipper. I primi che mi vengono in mente sono Sexton o O’Mahony ma il discorso è un altro: per avere una squadra forte devi avere diversi leader, almeno quattro o cinque; chi fa ufficialmente il capitano passa in secondo piano. Il Sei Nazioni, secondo Keatley, è molto aperto e dipenderà dalle condizioni momentanee di ogni singola partita e di ogni squadra: “L’Irlanda è un bel mix di gente con grande esperienza e ventenni che hanno superato alla grande il battesimo con l’alto livello. A volte si fanno troppi ragionamenti sui novellini ma vale sempre il principio “if you are good enough, you’re old enough”. Fondamentale sarà la prima partita: tutti arrivano freschissimi, tirati, preparati. Vincere crea confidenza e confermarsi crea “momentum”. Perdere, di contro, mette una pressione esagerata e malsana sul match successivo. Quindi affrontare all’Aviva sia la Scozia che il Galles potrebbe aiutare l’Irlanda a creare un’atmosfera utile per arrivare a Twickenham a giocarsi tutto”.

 

 

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