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Dan Carter avrebbe voluto ritirarsi prima ancora della Rugby World Cup 2015 in seguito agli infortuni patiti nel 2012 (una serie culminata con quello alla caviglia dopo il suo 100° cap a Twickenham contro l'Inghilterra) e successivamente quando si ruppe una gamba poco prima di rientrare a giocare con gli All Blacks nel 2014 (nel match di Super Rugby dei suoi Crusaders contro i Waratahs) dopo la fine del suo periodo sabbatico. A rivelarcelo lo stesso Dan Carter in un lungo e bellissimo pezzo apparso sui media a stelle e strisce.

"Pensavo fosse giunto il momento di ritirarsi"

"Eravamo alla fine della stagione 2013, e stavo cercando di riscaldarmi un pò una mattina. Quell’anno avevo sofferto diversi infortuni che mi hanno costretto a giocare solo qualche partita, anche quando ero tornato a giocare non ero riuscito a rientrare in forma.

Stavo andando a fare jogging, come avevo fatto molte volte prima di allora, ma questa volta era diverso. Continuavo a pensare di potermi ancora infortunare.

Un passo

“Mi sono stirato il polpaccio?”

Un altro passo

“Mi sono stirato il femorale?”

“Perché mi fai questo? Ho bisogno di te!”

Quando sei un atleta professionista e raggiungi il punto nel quale la tua mente e il tuo corpo non sono più sulla stessa lunghezza d’onda vuol dire che sei finito.

Ho cercato di calmarmi. Avrei dovuto solo cercare di terminare quella stagione. La New Zealand Rugby Union mi aveva garantito un periodo sabbatico di sei mesi per disintossicarmi dal rugby. Era una sorta di ricompensa per aver giocato dieci anni per gli All Blacks. Mi serviva parecchio in quel momento, dovevo prendermi il giusto tempo per valutare quale sarebbe stato il prossimo passo, qualsiasi esso fosse.

Quando sei un atleta professionista e raggiungi il punto nel quale la tua mente e il tuo corpo non sono più sulla stessa lunghezza d’onda vuol dire che sei finito.

Sapevo benissimo che quegli infortuni erano il frutto di dieci anni di questo sport ad alto livello. Non erano una maledizione quanto una conseguenza.

L’ultima volta che mi fu dato un break era nel 2009 e la usai come opportunità di giocare a rugby in Francia per 6 mesi. Questa volta sapevo che avrei dovuto allontanarmi completamente dal rugby. Vivendo in Nuova Zelanda, il rugby è tutto, e c’è sempre qualche tipo di allenamento e partita alla quale partecipare. E’ abbastanza facile venire prosciugati completamente da esso.

Quando ero lontano dal rugby, e posso dire che lo ero, veramente lontano dal rugby. Ho viaggiato in luoghi e visto cose che mi ero perso prima di allora. Sono andato a vedere la Formula 1 a Melbourne, al Master di Augusta e sono andato a Coachella (un festival di musica) in California. Insomma ho avuto la possibilità di fare delle cose che un giocatore di rugby non potrà mai fare nella sua carriera.

Per diverse settimane non ho dovuto pensare dove avrei giocato di nuovo. Non ho proprio dovuto pensare allo sport. Ed era tutto ciò di cui avevo bisogno.

Quando mi stavo avvicinando alla fine del mio break ho iniziato realmente a provare una sensazione di astinenza. Non mi era mai capitato prima di sentire la mancanza del rugby. Ma il legame è sempre stato forte e presente. Avevo iniziato anche a guardare i match alla TV più a lungo. A quel punto ho sentito un’ondata di sollievo. Volevo ancora giocare. Ho sentito nel profondo di aver ancora del buon rugby dentro di me, avevo voglia di farmi un nuovo giro in giostra.

Certo, altro discorso era se il rugby sarebbe stato pronto a riprendermi indietro.

Due settimane prima del mio ritorno programmato con gli All Blacks mi sono rotto una gamba. Dopo aver passato sei mesi interamente dedicati a ricostruirmi ero tornato al punto da dove avevo iniziato. Mancavano solo 15 mesi alla Rugby World Cup ed era chiaro che non avrei avuto nè la preparazione nè la forma per prenderne parte.

Per la prima volta nella mia vita ho messo in discussione il mio amore per questo sport. Mi sono domandato se il mio corpo avrebbe potuto sopportarlo ancora. Le critiche ricevute circa la mia età iniziavano ad aver più senso anche per me. Tutte le grandi giocate che avevo fatto durante la mia carriera mi sembravano solo dei ricordi ormai. Ed ho iniziato a pensare che tipo di eredità avrei lasciato dietro di me se avessi annunciato il mio ritiro proprio in quel momento. Avrei potuto lasciare il rugby e non penso nessuno avrebbe potuto meditarci sopra più di me in quel momento.

Così in quell’estate ho passato diverso tempo a pensare al mio futuro e a cosa ci sarebbe stato dopo. Sono stato fortunato ad avere una moglie che ha giocato ad hockey per la Nuova Zelanda ed ha avuto una profonda conoscenza dei miei sentimenti personali e allo stesso tempo della psicologia dello sport. Le dissi che mi volevo ritirare, che non pensavo di avere più il talento. Lei era la mia roccia e il mio punto di riferimento per tutto quel periodo, e nonostante tutte le mie motivazioni ha continuato ad incoraggiarmi. Se non fosse stato per lei e per il mio amore per la maglia All Blacks, avrei probabilmente appeso le scarpe al chiodo.

Ma ho tenuto duro, nonostante sia stata una battaglia interiore. Un giorno mi sentivo bene ed ero fiducioso, l’altro con il pensiero di come annunciare il mio ritiro. Dopo aver meditato per alcune settimane ho preso la decisione: avrei annunciato di voler terminare la mia carriera con gli All Blacks alla fine della Rugby World Cup 2015.

Avevo preso quella decisione prima ancora di sapere se avessi fatto parte del gruppo per la World Cup. Se mi fossi dovuto basare sui miei due anni precedenti non avrei certamente meritato di far parte del team. Mi spiego, avevo partecipato solamente a 8 o 9 partite, non avevo giocato particolarmente bene nella maggior parte di quelle. E non era particolarmente chiaro se gli allenatori mi avessero voluto in squadra. E posso capire anche perché, c’erano un paio di altri ragazzi nel mio ruolo che avrebbero veramente meritato di entrare nel team.

Annunciando la mia intenzione di porre fine alla mia carriera internazionale dopo la coppa del mondo penso stessi cercando di motivarmi per tornare al livello che sapevo poter raggiungere.

Il primo passo sarebbe stato riguadagnare appieno la fiducia nelle mie abilità. Dopo qualche tentennamento il mio team provinciale (Canterbury) decise di prolungare il contratto. Mi hanno fatto giocare fuori posizione per gran parte della stagione, è stato duro da digerire per me perché stavo cercando di provare che potevo ancora essere il mediano di apertura degli All Blacks. Ma solo il fatto di esser tornato a giocare e a far parte di una squadra mi aveva in un certo qual modo ringiovanito.

Sinceramente non mi importava molto di come giocavo, volevo solo superare quel momento. Dovevo provare a me stesso che avrei potuto ancora giocare una serie di partite senza rompermi di nuovo. Una volta arrivato a metà stagione senza infortuni, ho fatto un passo indietro e ho modificato i miei obiettivi. Ho modificato il mio focus cercando di innalzare il mio livello di gioco cercando di dare prestazioni importanti.

Sinceramente non mi importava molto di come giocavo, volevo solo superare quel momento.

Una volta iniziata la stagione degli All Blacks sono sceso in campo in cinque partite e la mia forma era okay, ma non certo al livello di quella del passato. Non ero sicuro di aver ancora spazio per del miglioramento o se quello era tutto quello che potevo aspettarmi da me stesso andando avanti. I critici hanno inizato a farsi sentire un po’ di più e il coro di persone che diceva che non avrei dovuto far parte del team aveva iniziato a farsi sentire a voce più alta.

C’è stata parecchia pressione prima del nostro ultimo match di avvicinamento alla coppa del mondo, sia sulla squadra e certamente anche su di me. Avremmo dovuto affrontare l’Australia in un match da vita o morte per la Bledisloe Cup. Un trofeo per il quale le due nazioni competono ogni anno, e che io non ho mai perso dalla prima volta che ho iniziato a giocare con gli All Blacks nel 2003. Se non avessimo vinto quella partita, sarebbe stata anche colpa mia, e le mie possibilità di far parte del team per la Rugby World Cup, che sarebbe stato annunciato la settimana seguente, probabilmente sarebbero state uguali a zero.

In molti modi, il viaggio che avevo intrapreso dal 2013 per ricostruirmi come giocatore aveva portato a questo punto, e qualcosa dentro di me si era attivato. Abbiamo vinto il match 41-13 ed ho messo in campo una delle mie migliori performance internazionali.

Avevo capito di esser tornato e la settimana dopo mi hanno detto che avrei ricoperto la posizione da apertura nella coppa del mondo in Inghilterra.

Guardando indietro non avrei potuto scrivere niente di meglio per come si è poi concluso il torneo.

Nei quarti di finale abbiamo incontrato la Francia, la squadra che ci aveva buttato fuori dalla coppa nel 2007. Quella sconfitta aveva segnato una delle ore più buie nella storia dello sport neozelandese e la ferita era ancora aperta nella mente di diversi giocatori quando scendemmo in campo. Questa volta gli abbiamo dato oltre 60 punti, un modo per dire “Non quest’anno”. Una gran quantità di cattivi pensieri sono stati messi a tacere in maniera definitiva, e penso che la nostra prestazione abbia mostrato al mondo il livello di prestazione da aspettarsi per i due match successivi, non avrebbero più avuto alcuno strascico da portarsi dietro.

In semifinale dovevamo incontrare il Sud Africa, uno tra i nostri rivali più fieri. Ci siamo sempre trovati benissimo con i giocatori sudafricani fuori dal campo, ma sul campo è sempre stata guerra totale. E’ stato un match tiratissimo ma siamo riusciti a portare a casa una vittoria di 2 punti facendo ricorso a tutte le nostre risorse ma ci ha permesso di arrivare in finale.

Ad aspettarci c’era ovviamente l’Australia. Come se la posta in gioco non fosse abbastanza alta.

La Nuova Zelanda gioca il ruolo del fratello minore gran parte delle volte. Come Kiwi hai l’impressione che ti guardino dall’alto in basso. Loro sono la squadra contro la quale non vogliamo assolutamente perdere. Visti i veterani che avevamo in squadra pensavo che meritassimo di finire al meglio, ma i Wallabies non avrebbero voluto altro che rovinarci la festa.

Nel secondo tempo eravamo avanti per 21-3 quando uno dei nostri si è fatto mandare al sin-bin per un giallo. L’Australia ha segnato due mete in rapida successione e in un attimo ha preso in mano le redini della partita. Il punteggio era 21-17 e ci sarebbero serviti giusto 3 punti che ci dessero un po’ di respiro. Ho visto l’opportunità ed ho tentato un drop da 40 metri. E’ stato impulsivo e anche rischioso, qualcosa che non avrei mai potuto tentare se non avessi avuto la totale fiducia nel mio corpo. Quando la palla è veleggiata in mezzo ai pali il livello d’energia degli Aussie è crollato e il nostro è salito nuovamente. Abbiamo nuovamente ripreso in mano il pallino della partita e di li in poi non abbiamo corso più rischi.

Dopo il fischio finale è stata una scena selvaggia.

Ancora adesso non mi ricordo granchè. Quello che ricordo bene è il post partita, seduto negli spogliatoi con un sorriso immenso stampato in faccia. Guardavo in basso alla medaglia d’oro attorno al mio collo e in mezzo alla stanza giganteggiava il trofeo della Rugby World Cup. A completare l’opera avevo anche vinto il Man of the Match. In quel momento ho solo cercato di godermi appieno quello che stavo provando perché ci sono così pochi momenti nella vita nei quali si possa provare la piena e completa soddisfazione di una missione compiuta. Sin da quando ero bambino ho sempre sognato di poter avere l’onore di vestire la maglia degli All Blacks almeno una volta. Nei mesi precedenti avevo sperato di aver ancora un’ultima opportunità di rapresentare la mia nazione. E questo? Questo momento andava oltre i miei sogni più grandi.

Solo 24 ore dopo sono stato nominato World Rugby Player of the Year cosa che mi sarebbe parsa veramente impossibile solo qualche tempo prima. In un certo qual modo è un premio e un onore che appartiene a più persone: allo staff dei preparatori degli All Blacks che mi ha aiutato così meticolosamente a ricostruire “dal nulla” il mio corpo, agli allenatori che hanno mostrato così gran fiducia in me, ai miei compagni che mi hanno dato le motivazioni per giocare al loro livello e a mia moglie che non mi ha permesso di ritirarmi nonostante sembrasse la decisione più sensata.

L’ultimo paio di anni li ho vissuti/sentiti come un viaggio molto impegnativo e intenso. E’ iniziato con molti dubbi, come ad esempio se fossi stato ancora in grado di giocare una partita, ed è finito nel migliore dei modi che potessi immaginare. Durante tutto questo periodo ci sono stati molti momenti in cui ho pensato come mi sarei dovuto ritirare. Ora lo so: da Campione del Mondo".

 

Foto Elena Barbini

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