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Agustin Pichot si è fatto paladino di una rivoluzione nel rugby che conta. Allrugby lo ha intervistato per conoscere direttamente da lui la filosofia e le motivazioni che stanno dietro alla voglia di cambiamento. L’ex mediano di mischia e capitano dei Pumas argentini (72 caps) dal 2016 è diventato vice presidente di World Rugby.

Leggi la prima parte dell’intervista a Agustin Pichot

Articolo pubblicato su Allrugby di giugno 2019, numero 137

 

Questione stranieri. Cinque anni sono sufficienti per l’eleggibilità?

Non lo so, però penso sia un periodo abbastanza lungo per cui un giocatore può meritare, sentirsi di rappresentare una nazione. Vorrei fare di più, ovviamente. Ma la modifica è un buon modo per evitare che squadre come Irlanda e Scozia pianifichino l’acquisizione dei giocatori. Ma è anche un modo per preservare le varie scuole e il famoso pathway: quando gioca un equiparato si toglie posto a un altro, per forza di cose. Può nascere un cortocircuito che non invoglia i giovani a emergere perché hanno poi paura di non trovare posto, di non essere valorizzati a causa di scelte politiche.

Ti piace il tuo ruolo, pensi di continuare?

Oggi sono contento, siamo riusciti a cambiare l’articolo 8 (quello sull’eleggibilità, ndr) e stiamo provando a rivoluzionare il sistema con il Nations Championship. Abbiamo fatto tanto per il Seven che è cresciuto molto. Sono tante le cose di cui andare orgogliosi.

Cosa non ti piace del tuo ruolo, invece?

Non saprei, a volte i compromessi ma sono una persona in pace con sé stessa. Ho girato il mondo per i Pumas, ora lo faccio per la Federazione internazionale. Ma io ho sempre il mio club, il CASI, dove posso sempre tornare e che mi darebbe grandi soddisfazioni ugualmente.

 

Hai sempre detto che i Lions sono un brand da preservare. Cosa ne pensi dei Barbarians, anche alla luce delle ultime stagioni in cui i risultati sono andati migliorando.

Sono entrambi fondamentali per portare avanti una certa idea di rugby. I Baabaas sono l’espressione di una spontaneità che fa bene al gioco, alla sua immagine. Ma deve essere portata avanti seriamente. Per quanto riguarda i British e Irish Lions è una cosa molto buona per le squadre che lo compongono ma ci sono Nazionali che non hanno nulla di simile, penso all’Italia, alla Francia, alla stessa Argentina. Solo sette nazioni ne beneficiano, alla fine. Come concetto è molto forte ma non è inclusivo, bisognerebbe ragionare su una prospettiva di lungo termine.

A proposito di modelli, quello dell’Argentina sta funzionando, ma ci sono stati momenti difficili che hanno fatto affiorare qualche dubbio. Pensi sia esportabile?

Oggi per l’Argentina è durissima perché nel Championship si sta confrontando con le tre migliori squadre del mondo e sta guadagnando sempre qualcosa da questo confronto. E anche nel Super Rugby stiamo diventando ogni anno più competitivi. Speriamo di confermarci in questa stagione. Il nostro modello è simile a quello dell’Italia: Nazionale in un torneo con squadre più forti e le franchigie in Celtic League. Sta iniziando a dare i suoi frutti. È dura, bisogna però provare, cambiare, perseverare. Avere coraggio. I modelli possono essere gli stessi a grandi linee, poi ognuno deve trovare propria ricetta.

 

Rugby femminile, che strategia c’è a livello di World Rugby per i prossimi dieci anni?

Lo sviluppo del rugby femminile è paragonabile a quello del Seven nella decade passata. Ci ha permesso di uscire dalla sola logica del XV maschile e di esplorare nuovi territori e nazioni diverse da quelle tradizionali. Abbiamo visto crescere nazioni come Colombia, Polonia e altre che erano totalmente fuori dai radar di World Rugby. Penso che il destino delle donne sia questo: sempre più importanti e strategiche per un obiettivo comune: la crescita del gioco e della platea di praticanti/spettatori.

Cosa ne pensi delle preoccupazioni che affiorano da più parti relativamente al mutamento del gioco: sempre più veloce, sempre più fisico ma anche più pericoloso, in cui gli infortuni diventano protagonisti.

Tutti gli sport stanno cambiando, è l’evoluzione umana, scientifica che lo permette o lo determina. L’importante è continuare a evolvere anche a livello di regole per preservare l’integrità dei giocatori.

Di doping nel rugby si parla poco ma sono tanti i sospetti. Alcuni sport stanno varando dei protocolli antidoping ancora più rigidi di quelli della Wada, è il caso per esempio delle cinque maggiori maratone al mondo.

Penso lo sport stia facendo tanto contro il doping. Come rugby noi siamo concentrati sulla campagna “Rugby clean”. Abbiamo ottenuto diversi risultati ma in generale si deve continuare a lavorare sempre seguendo le linee guida del Comitato olimpico internazionale, cui tutte le nostre Federazioni sono allineate. Il rugby per il momento non ha sofferto di casi eclatanti ma non bisogna certo abbassare la guardia. Sarebbe troppo pericoloso.

Cosa ne pensi delle preoccupazioni che affiorano da più parti relativamente al mutamento del gioco: sempre più veloce, sempre più fisico ma anche più pericoloso, in cui gli infortuni diventano protagonisti.

Tutti gli sport stanno cambiando, è l’evoluzione umana, scientifica che lo permette o lo determina. L’importante è continuare a evolvere anche a livello di regole per preservare l’integrità dei giocatori.

 

Leggi la prima parte dell’intervista a Agustin Pichot

 

 

 

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