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L'incontro con Sebastian Rodwell ci ha lasciato molti spunti interessanti provenienti dalla sue esperienze personali nella casa del rugby, L'Inghilterra. Ho deciso allora di approfondire la parte che riguarda la formazione di bambini e ragazzi, che tante domande ha generato tra i nostri lettori. Sebastian mi ha risposto volentieri, inondandomi di materiale estremamente interessante.

Quello che mi ha colpito in primis è che per iniziare non serve sempre un campo da rugby. Si può partire da una palestra scolastica, da un prato o anche da una semplice piazza cittadina: insomma, è sufficiente uno spazio dove bambini o ragazzi possano correre senza pericoli.

Organizzato lo spazio, Sebastian ci ha raccontato di come possano essere proposti due metodi per approcciarsi al rugby: quello visivo e quello spaziale.

Legare il gesto da compiere a un'immagine è un modo sicuro per rendere il gesto immediato. La razionalità, il dover riflettere sul gesto da compiere rende infatti il gesto stesso più macchinoso, lento e artificiale. Ecco che insegnare il passaggio, ad esempio, non necessita di molte spiegazioni: dicendo ai bambini “from pocket to rocket” (dalla tasca al razzo) mentre si mima il gesto, si avrà l'attenzione del bambino e gli si fornirà un punto di riferimento visuale pronto per l'uso.

 

Aggiunge Sebastian: “La lingua inglese è forse più limitata, nel vocabolario, dell'italiano. Ecco che allora in Inghilterra si utilizzavano molte immagini e altrettanti suoni, per riuscire a mostrare i gesti da compiere”. Quindi, per insegnare il placcaggio ai ragazzi più grandi, si evoca un immaginario cerchio che circonda il giocatore avversario (il “Fifa circle” che compare nei videogiochi calcistici), si chiede di entrare dentro quel cerchio e di chiudere con le braccia un anello d'acciaio (“ring of steel”) intorno al giocatore, poggiando la guancia sulla “guancia” del sedere avversario.

L'approccio spaziale si concentra invece sulla necessità di evadere dallo scontro fisico per cercare lo spazio. Che si tratti di segnare una meta oppure di rubare palloni dalla tana dei famelici componenti della squadra avversaria, la parte ludica è considerata giustamente fondamentale nella formazione. Lo scopo è quello di coinvolgere, ma anche contemporaneamente di dare responsabilità: se c'è un gioco in cui qualcuno deve “stare nel mezzo” e rincorrere tutti gli altri, questo qualcuno è scelto sempre tra i più bravi. “Stare in mezzo” non è una punizione, uno sberleffo, ma piuttosto un impegno ulteriore per i più meritevoli.

Questo tipo di approccio integrato è espresso a pieno dal “tag rugby”. Specialità poco utilizzata in Italia (ma la FIR ha appena lanciato un progetto specifico), non prevede il contatto fisico e richiede agilità sia in attacco che in difesa. Quest'ultima si sostanzia nel rubare una striscia di stoffa dalla cintura degli avversari e viene giocata da squadre miste, con un minimo prestabilito di presenze femminili. Per le sue caratteristiche si presta molto sia per iniziare a vivere il rugby con  bambini, sia per giocarlo anche in assenza di una preparazione fisica particolare.

Sebastian continua raccontandomi anche della particolare integrazione che ha visto mettere in campo tra le squadre giovanili e quelle senior. Spesso i tornei giovanili mettono in palio la possibilità di giocare nell'intervallo di partite “vere”, anche di Premiership. Inoltre, prima della partita è normale avere uno spazio di domande e risposte in cui i ragazzi possono soddisfare le proprie curiosità nei confronti dei giocatori professionisti.

 

L'impostazione della formazione rugbistica sembra quindi studiata nei minimi dettagli. D'altra parte,  le squadre di Premiership, avendo obiettivi di reclutamento nelle scuole, hanno allenatori che si occupano a tempo pieno solo di questa attività: coinvolgere e formare quanti più studenti riescono.