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Come (provare a) analizzare e valutare l’esito finale della recente Rugby World Cup femminile disputata in Irlanda? Partendo dalle sorprese, che non sono state moltissime, essendo il rugby, anche quello praticato dall’altra metà del cielo, ancorato a gerarchie solide come antiche querce. Non proprio inamovibili, quasi.

Il quarto posto conquistato dagli Usa è da considerarsi evento di sicuro interesse e, a suo modo, dal potenziale mediatico non indifferente. Le enormi dimensioni del bacino di sviluppo di un mercato sportivo come quello a stelle e strisce inducono a ottimismo circa la diffusione della palla ovale dall’Atlantico al Pacifico. Lo stesso discorso vale per il confinante Canada (già potenza riconosciuta nella versione Seven). Saranno le donne a guidare l’invasione del gioco inglese per eccellenza anche nelle più antiche delle ex colonie dell’impero britannico? La Spagna, giunta decima, è la sola europea extra Sei Nazioni presente fra i primi 10, agli ultimi posti due formazioni asiatiche, Giappone e Hong Kong.

Riassumendo, e limitando la raccolta dati alle prime 10 posizioni: emisfero Nord batte emisfero Sud 8-2 (Argentina, Sud Africa, Fiji e altri arcipelaghi assenti); le prime tre classificate – NZ, Inghilterra, Francia – occupano anche i primi tre posti del ranking intenazionale; le uniche differenze fra la classifica finale della WC e il Ranking di WR sono date dalla posizione di: Canada (4 nel Ranking, 5 alla WC), Usa (5 R, 4 WC), Italia (8 R, 9 WC), Irlanda (9 R, 8 WC).

Curiosità: nei primi 10 posti del Ranking maschile il confronto Nord-Sud è in parità (5-5) e nelle prime 5 posizioni vince il Sud 3-2 (NZ, SA, Aus/Ingh, Irl).

Alle ragazze del ct Andrea Di Giandomenico, che hanno pagato un prezzo altissimo in infortuni e sette delle quali hanno detto addio a Belfast al rugby giocato, è giusto riconoscere il merito di aver lottato su ogni pallone, contro qualsiasi avversario e in qualsiasi situazione tattica o ambientale. Un dato, più di ogni altro dice di un gruppo assolutamente determinato e consistente: il numero dei placcaggi mancati. Basso, bassissimo, nonostante possessi raramente dominanti sul piano della quantità. Non banale è poi la terza posizione nella classifica per nazioni dei placcaggi effettuati con 942 (188 a partita!) dietro a Spagna e Giappone.

Alla domanda: cosa manca alle attuali azzurre per poter competere per le posizioni di vertice a livello internazionale e per poter raccogliere risultati lusinghieri al Sei Nazioni (cosa che in passato peraltro hanno già fatto), rispondiamo che a queste ragazze mancano… alcune ragazze. Ne cito alcune: l’estremo, una seconda linea e i due flanker dell’Inghilterra, la coppia di ali della nazionale Usa, e poi Portia Woodman, Grace Hamilton, Emily Scarrat. E qualcuna capace di usare il piede in maniera vantaggiosa nel gioco tattico.

Cristina Tonna, a Milano, alla vigilia della partenza per l’Irlanda, ha citato numeri incoraggianti (8mila le praticanti) e volumi del movimento (125 club) che inducono all’ottimismo. A giorni partirà un campionato di A a 20 squadre, con la prospettiva di creare a breve una serie B da cui salire o in cui retrocedere.

Tutti segnali importanti e positivi. Come quelli arrivati dalle vittorie con Giappone e Spagna, sofferte entrambe ma meritate.

Dovendo dare un voto alla spedizione nel suo complesso, ammesso che ero fra quanti avevano pronosticato una vittoria sulla Spagna nel girone, non riuscirei a scendere sotto un 7 di piena, anzi pienissima sufficienza. Con una menzione speciale per l’estremo Furlan, che in fase offensiva possiede angoli di corsa da manuale uniti a competenze nella fissazione dell’avversario di assoluto valore e per le varie prime linee che si sono avvicendate nel comporre la testa di mischia.

 

Tutti i risultati della Women’s Rugby World Cup

Foto Martina Sofo