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La visibilità del settore arbitrale femminile è cresciuta esponenzialmente negli ultimi due anni. Mi sembrava interessante approfondire il lavoro che sta dietro a questo risultato e per questo ho colto l’opportunità di intervistare Monia Salvini, tecnico arbitrale e responsabile del settore arbitrale femminile.

 

Ciao Monia e grazie per essere qui a rispondere alle domande di Rugbymeet. La prima domanda che vorrei farti è: come ti sei avvicinata al rugby? Per mia esperienza, le risposte a questa domanda sono sempre molto diverse tra loro e molto interessanti.

Io ho iniziato ad arbitrare una quindicina di anni fa. Avevo dei cugini che giocavano a rugby e mia zia mi iscrisse al corso arbitri, quindi ho iniziato così per gioco. Finito il corso non intendevo davvero arbitrare, poi ho iniziato ad allenarmi con una squadra vicino casa, ho iniziato a guardare con attenzione le partite internazionali in TV e da lì il gioco è diventato prima una passione e poi lavoro. Ho arbitrato fino alla serie B maschile, poi nel 2013 l’allora presidente degli arbitri Maurizio Vancini mi chiese di prendere il suo posto come responsabile del settore femminile. Aveva fiducia in me, perché essendo una donna potevo meglio capire il ruolo femminile sia a livello tecnico che sportivo.

 

Qual è stata la parte più complicata del tuo lavoro, nel passaggio tra arbitro e coordinatore di altri arbitri?

E’ stata dura, per me era molto più semplice stare in campo che seguire tutte queste ragazze. Le più famose oggi sono forse Maria Beatrice Benvenuti e Clara Munarini, però le tesserate sono 72-73 e riesco a seguirle solo grazie all’aiuto fondamentale dei coordinatori regionali e con i tutor. Il lavoro più importante è stato quello di riorganizzare me stessa per poter insegnare ad arbitrare. Ho conseguito il patentino di Match Official Educator e ho seguito corsi in Italia e all’estero. Mi sono messa in gioco a trecentosessanta gradi. Ho seguito e seguo ancora anche i corsi di aggiornamento per gli allenatori.

 

Ho sentito Carlo Damasco accennare a una collaborazione tra i tecnici arbitrali e gli psicologi dello sport per la gestione dell’aspetto mentale nella prestazione degli arbitri.

Sì, collaboriamo con uno psicologo sportivo che si chiama Alessandro Bargnani. Lo contattai la prima volta due anni per un workshop di cinque giorni con le ragazze dell’Accademia, quando ancora c’era un’accademia unica a Tirrenia, vicino Pisa, e non ancora le accademie regionali. Oltre a studiare il regolamento, migliorare la preparazione fisica e allenarci con alcune squadre, una parte era dedicata alla psicologia sportiva. Per me è molto importante, perché gli arbitri oggi esordiscono giovanissimi, in Eccellenza anche a 22 o 23 anni, molti non hanno giocato e rischiano di ritrovarsi in un ambiente più grande di loro. Vanno supportati anche dal punto di vista emotivo, non solo da quello tecnico o fisico, per metterli in grado di gestire la pressione e la gestione complessiva di un incontro. Con lo psicologo ci sono alcune occasioni di incontro periodiche, per il supporto quotidiano ci sono figure come la mia che sono sempre a disposizione.

 

Sono stati fatti esperimenti per rendere i giocatori più consapevoli della difficoltà del ruolo dell’arbitro?

Sì, siamo stati nelle società e ci torneremo con un progetto che si rivolge alle giovanili, Under 18 e Under 16. Quello che stiamo cercando di fare è convincere che l’arbitraggio è un aspetto fondamentale per il gioco così come la preparazione regolamentare lo è per i giocatori. Sensibilizziamo i giovani arbitri ad andare ad allenarsi con le squadre, per esempio, perché maggiore è la conoscenza dei dettagli del gioco e migliore è l’arbitraggio. Collaboriamo stabilmente con le società su questi temi, abbiamo una piattaforma informatica per rivedere e commentare insieme le partite o semplici azioni di partite. La disponibilità a discutere c’è sempre e le squadre di Eccellenza possono anche mandare clip in Federazione per sollecitare un confronto.

 

Una delle critiche più in voga sugli arbitri riguarda il fatto che non abbiano giocato. Io non lo trovo così controproducente, che ne pensi?

Per chi non ha mai giocato può essere difficile individuare le furbizie dei giocatori in campo, ad esempio in mischia. Capire chi fa cosa in mischia non è sempre semplice, noi ci facciamo aiutare da Ambrogio Bona, che con le sue 52 presenze in nazionale ci ha dato una grossa mano nella formazione sulle dinamiche della mischia. La parte positiva di non aver giocato è che la tua esperienza specifica non ti condiziona. Sei più aperto ad imparare e forse anche più aperto mentalmente.

 

Foto Ruben Reggiani