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Ci si interroga spesso sul perché dei successi neozelandesi: si parla di capacità di selezione, di gestione delle risorse, di staff di grande bravura e di un environment che certamente supporta e facilita. Riassunto in una parola? Pathway, inteso come percorso, sentiero per raggiungere l'alto livello, la maglia con la foglia di felce sul petto. Pathway è per forza una delle parole chiave nel primo clinic italiano targato All Blacks - un solo precedente nel mondo, l'anno scorso in Spagna – ospitato settimana scorsa al Centro Curioni, headquarter del Rugby Milano. Uno degli educatori era PJ Williams, considerato uno più grandi esperti di alto livello: "il nostro è un pathway che prima di tutto funziona e garantisce risultati. Si basa su un meccanismo oliato, diviso per step, che permette a chiunque lo desideri di avere un percorso verso la maglia dei tuttineri. Poi non tutti ci riescono, io ad esempio non avrei mai potuto guadagnarmi un cap ma sono al servizio della causa da un altro punto di vista". PJ Williams è conosciuto come "The Doctor of New Zealand Sevens": è skills coach delle nazionali maschili e femminili seven, nonché nello staff allenatori dei Chiefs, franchigia di Super Rugby. Un curriculum invidiabile e durante il clinic milanese è stato affiancato da una delle seconde linee migliori della sua generazione, Norm Maxwell, e a un trequarti – Anthony Tuitavake - che ha vestito la maglia nera solo sei volte per via della concorrenza nel ruolo. Norm è chiaro in proposito, sul ruolo di PJ: "Io ho 36 caps, ho preso parte a un mondiale (quello del 1999) ma avere a fianco qualcuno che il professionismo non lo dimostra in campo ma a livello tecnico, educativo, è qualcosa di incredibile". "Non facciamo nulla di complicato – ribatte Williams - la differenza lo fa gente come Norm e Anthony. Chiunque può insegnare questo sport ma la valenza di un esempio come loro due rende tutto più semplice e indimenticabile". Vivere una settimana a contatto con uno staff di questo genere è a sua volta un pathway per l'universo All Blacks. 

 

Norm, alto quasi due metri, è il ritratto della serenità.È a suo agio con i bambini e con culture differenti: oltre a un passato ai Crusaders, ha giocato in Giappone, Spagna (un'esperienza a Vigo che Canal+ ha trasformato in un documentario) ed è stato perfino vicino a indossare la maglia di Calvisano. Ora, oltre al clinic, si occupa di un progetto interessante, Aotearoa Heart, che si basa sul coinvolgere i ragazzi in molte esperienze sportive diverse: "E quando intendo sportive è anche scalare un monte o correre fin sopra una collina. Tutte attività che possono aiutare la personalità e il carattere dei più piccoli a svilupparsi, a prendere consapevolezza di sé. Io, dovete sapere, ero un ragazzino insicuro, timido, prima di iniziare a giocare a rugby. E durante la carriera non ricordo solo gli highlights, l'affetto del pubblico e la sensazione di rappresentare un Paese. Ricordo anche momenti duri e difficili. Perché se con i compagni tutto è facile, o quanto meno automatico, con le persone che ruotano intorno al mondo del rugby è tutto più complesso. Per questo amo fare questi clinic, o portare avanti i miei progetti, perché è questa la parte del rugby che mi piace di più: entrare in contatto con gente che altrimenti non avrei mai conosciuto, lasciare un segno, un ricordo. Non smettere di essere un esempio".

 

L'altro All Black, Anthony Tuitavake, è un sorriso unico, scherza con tutti, ha una presa sui giovani rugbisti fenomenale. È lui che trascina i ragazzi durante l'Haka, punto apicale dell'esperienza del clinic targato All Blacks, messa in scena di fronte ai genitori al termine dell'ultima giornata. Ennesima spettacolarizzare della danza di guerra? Tutt'altro: se si mastica un po' di cultura maori è normale imbattersi nella haka. Ogni scuola o istituto universitario neozelandese ha una sua versione; commemorazioni funebri, nuziali, celebrazioni pubbliche la vedono protagonista. Impararla e rappresentarla insieme a un All Blacks è davvero un privilegio e ciliegina su una settimana indimenticabile. 

 

 

Foto Marcello Pastonesi

 

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